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Canto IV Inferno

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Riassunto

Il canto quarto dell'Inferno di Dante Alighieri si svolge nel primo cerchio, ovvero il Limbo dove si trovano i virtuosi non battezzati; siamo nella notte tra l'8 e il 9 aprile 1300 (Sabato Santo), o secondo altri commentatori tra il 25 e il 26 marzo 1300.

Più di tre ore sono trascorse dall'apparizione dell'angelo nocchiero quando Dante e Virgilio, in seguito all'indicazione delle anime degli scomunicati, iniziano la salita lungo uno stretto sentiero, la cui ripidità è tale che solo il grande desiderio di purificazione può aiutare a percorrerlo. Durante l'ascesa Dante ha un momento di scoraggiamento, dal quale il maestro lo scuote esortandolo a raggiungere un ripiano sul quale potranno riposare. Qui giunti, Virgilio spiega al discepolo perché i raggi del sole nel purgatorio provengono da sinistra, mentre nell'emisfero artico chi guarda verso levante vede il sole salire nel cielo alla sua destra. Ma Dante teme l'altezza del monte e Virgilio lo rassicura: l'ascesa è difficile solo all'inizio, quando si è ancora sotto il peso del peccato, poi si presenterà man mano sempre più facile ed agevole. Non appena il poeta latino termina di parlare, si leva improvvisamente una voce verso la quale i due pellegrini si dirigono, finché si trovano davanti a una grande roccia alla cui ombra giacciono le anime dei negligenti, che, per pigrizia, si pentirono solo all'estremo della vita e che, per questo, devono restare nell'antipurgatorio tanto tempo quanto vissero. Chi ha parlato è il fiorentino Belacqua, che Dante conobbe e con il quale il Poeta stabilisce un affettuoso colloquio finché Virgilio gli ingiunge di proseguire il cammino.
 
Parafrasi
Ruppemi l'alto sonno ne la testa
un greve truono, sì ch'io mi riscossi
come persona ch'è per forza desta;
Un cupo tuono interruppe il profondo sonno nella mia testa, così ripresi coscienza come una persona che è destata violentemente;
 
e l'occhio riposato intorno mossi,
dritto levato, e fiso riguardai
per conoscer lo loco dov'io fossi.

allora, levatomi in piedi, volsi intorno gli occhi riposati, e guardai attentamente per rendermi conto del luogo dove ero.

   
Vero è che 'n su la proda mi trovai
de la valle d'abisso dolorosa
che 'ntrono accoglie d'infiniti guai.
Il fatto è che mi trovai sul margine della profonda voragine del dolore, che in sé contiene il fragore di innumerevoli lamenti.
   
      Oscura e profonda era e nebulosa
      tanto che, per ficcar lo viso a fondo,
      io non vi discernea alcuna cosa.
(La voragine) era buia e profonda e fumosa tanto che, per quanto tentassi di penetrarvi fino in fondo con lo sguardo, non riuscivo a distinguervi nulla.
   
      «Or discendiam qua giù nel cieco mondo»,
      cominciò il poeta tutto smorto.
      «Io sarò primo, e tu sarai secondo».
"Ora scendiamo quaggiù nel mondo delle tenebre" cominciò a dirmi Virgilio, che era impallidito, "io andrò per primo, e tu mi seguirai.
   

E io, che del color mi fui accorto,
dissi: «Come verrò, se tu paventi
che suoli al mio dubbiare esser conforto?».

Parafrasi: Ed io, che avevo notato il suo pallore, dissi: "Con quale animo potrò seguirti, se tu, che sempre mi infondi coraggio allorché sono preso dal timore, hai paura? ".
   

Ed elli a me: «L'angoscia de le genti
che son qua giù, nel viso mi dipigne
quella pietà che tu per tema senti.

Parafrasi: Ed egli: "La tragica sorte dei dannati diffonde sul mio volto quel pallore che tu interpreti come un segno di paura.
   

Andiam, ché la via lunga ne sospigne».
Così si mise e così mi fé intrare
nel primo cerchio che l'abisso cigne.

Parafrasi: Muoviamoci, poiché il lungo cammino (che dobbiamo percorrere) ci costringe a non perdere tempo". Dicendo questo si avviò e mi fece entrare nel primo cerchio che chiude tutt’intorno il baratro.
   

Quivi, secondo che per ascoltare,
non avea pianto mai che di sospiri,
che l'aura etterna facevan tremare;

Parafrasi: Qui, per quel che si poteva arguire dall’udito, non vi era altra manifestazione di dolore fuorché sospiri, che facevano fremere l’atmosfera infernale. Sospiri, che l'aura etterna facevan tremare: questi " sospiri " si contrappongono idealmente all'incomposto bestemmiare delle anime del canto precedente, e individuano una nuova tonalità: elegiaca, non più tragica.
   

ciò avvenia di duol sanza martìri
ch'avean le turbe, ch'eran molte e grandi,
d'infanti e di femmine e di viri.

Parafrasi: Ciò avveniva a causa del dolore non provocato da tormenti corporali che colpiva schiere, numerose e folte, di bambini e di donne e di uomini.
   

Lo buon maestro a me: «Tu non dimandi
che spiriti son questi che tu vedi?
Or vo' che sappi, innanzi che più andi,

Il buon maestro mi disse: "Non mi chiedi che sorta di anime sono queste che si offrono al tuo sguardo? Voglio dunque che tu sappia, prima di procedere oltre,
   

ch'ei non peccaro; e s'elli hanno mercedi,
non basta, perché non ebber battesmo,
ch'è porta de la fede che tu credi;

che non hanno commesso peccato; e se hanno meriti, questi non bastano (a redimerli), perché furono privi del battesimo, che è la parte essenziale della fede in cui tu credi.
   

e s'e' furon dinanzi al cristianesmo,
non adorar debitamente a Dio:
e di questi cotai son io medesmo.

E se vissero prima dell’avvento del Cristianesimo, non adorarono nel modo dovuto Dio (come invece avevano fatto i patriarchi dell’Antico Testamento): e io stesso sono uno di loro.

Per tai difetti, non per altro rio,
semo perduti, e sol di tanto offesi,
che sanza speme vivemo in disio».

Per tale mancanza, non per altra colpa, siamo esclusi dalla beatitudine, e siamo tormentati in questo soltanto, che viviamo nel desiderio (di conseguire la visione beatifica di Dio) destinato a restare inappagato".
 
Gran duol mi prese al cor quando lo 'ntesi,
però che gente di molto valore
conobbi che 'n quel limbo eran sospesi.
Provai un grande dolore nell’udire queste parole, poiché seppi che alti ingegni (gente di molto valore) si trovavano in una condizione intermedia fra la disperazione dei dannati e la felicità dei beati in quell’orlo estremo (della voragine infernale).
 
«Dimmi, maestro mio, dimmi, segnore»,
comincia' io per voler esser certo
di quella fede che vince ogne errore:
Desiderando avere da lui la conferma (per volere esser certo) delle verità di quella fede che è al di sopra di qualsiasi dubbio, gli chiesi: "Dimmi, maestro, dimmi, signore,
   

«uscicci mai alcuno, o per suo merto
o per altrui, che poi fosse beato?».
E quei che 'ntese il mio parlar coverto,

uscì mai di qui alcuno, o per merito proprio o per merito altrui, per assurgere poi alla beatitudine?" Ed egli, che comprese il significato nascosto delle mie parole,
   

rispuose: «Io era nuovo in questo stato,
quando ci vidi venire un possente,
con segno di vittoria coronato.

   

Trasseci l'ombra del primo parente,
d'Abèl suo figlio e quella di Noè,
di Moisè legista e ubidente;

   

Abraàm patriarca e Davìd re,
Israèl con lo padre e co' suoi nati
e con Rachele, per cui tanto fé;

   

e altri molti, e feceli beati.
E vo' che sappi che, dinanzi ad essi,
spiriti umani non eran salvati».

   

Non lasciavam l'andar perch'ei dicessi,
ma passavam la selva tuttavia,
la selva, dico, di spiriti spessi.

   

Non era lunga ancor la nostra via
di qua dal sonno, quand'io vidi un foco
ch'emisperio di tenebre vincia.

   

Di lungi n'eravamo ancora un poco,
ma non sì ch'io non discernessi in parte
ch'orrevol gente possedea quel loco.

   

«O tu ch'onori scienzia e arte,
questi chi son c'hanno cotanta onranza,
che dal modo de li altri li diparte?».

   

E quelli a me: «L'onrata nominanza
che di lor suona sù ne la tua vita,
grazia acquista in ciel che sì li avanza».

   

Intanto voce fu per me udita:
«Onorate l'altissimo poeta:
l'ombra sua torna, ch'era dipartita».

   

Poi che la voce fu restata e queta,
vidi quattro grand'ombre a noi venire:
sembianz'avevan né trista né lieta.

   

Lo buon maestro cominciò a dire:
«Mira colui con quella spada in mano,
che vien dinanzi ai tre sì come sire:

   

quelli è Omero poeta sovrano;
l'altro è Orazio satiro che vene;
Ovidio è 'l terzo, e l'ultimo Lucano.

   

Però che ciascun meco si convene
nel nome che sonò la voce sola,
fannomi onore, e di ciò fanno bene».

 

Così vid'i' adunar la bella scola
di quel segnor de l'altissimo canto
che sovra li altri com'aquila vola.

   

Da ch'ebber ragionato insieme alquanto,
volsersi a me con salutevol cenno,
e 'l mio maestro sorrise di tanto;

   

e più d'onore ancora assai mi fenno,
ch'e' sì mi fecer de la loro schiera,
sì ch'io fui sesto tra cotanto senno.

   

Così andammo infino a la lumera,
parlando cose che 'l tacere è bello,
sì com'era 'l parlar colà dov'era.

   

Venimmo al piè d'un nobile castello,
sette volte cerchiato d'alte mura,
difeso intorno d'un bel fiumicello.

   

Così andammo infino a la lumera,
parlando cose che 'l tacere è bello,
sì com'era 'l parlar colà dov'era.

   

Venimmo al piè d'un nobile castello,
sette volte cerchiato d'alte mura,
difeso intorno d'un bel fiumicello.

   

Questo passammo come terra dura;
per sette porte intrai con questi savi:
giugnemmo in prato di fresca verdura.

   

Genti v'eran con occhi tardi e gravi, di grande autorità ne' lor sembianti:
parlavan rado, con voci soavi.

   

Traemmoci così da l'un de' canti,
in loco aperto, luminoso e alto,
sì che veder si potien tutti quanti.

   

Colà diritto, sovra 'l verde smalto,
mi fuor mostrati li spiriti magni,
che del vedere in me stesso m'essalto.

   

I' vidi Eletra con molti compagni,
tra ' quai conobbi Ettòr ed Enea,
Cesare armato con li occhi grifagni.

   

Vidi Cammilla e la Pantasilea;
da l'altra parte, vidi 'l re Latino
che con Lavina sua figlia sedea.

   

Vidi quel Bruto che cacciò Tarquino,
Lucrezia, Iulia, Marzia e Corniglia;
e solo, in parte, vidi 'l Saladino.

 

Poi ch'innalzai un poco più le ciglia,
vidi 'l maestro di color che sanno
seder tra filosofica famiglia.

 

Tutti lo miran, tutti onor li fanno:
quivi vid'io Socrate e Platone,
che 'nnanzi a li altri più presso li stanno;

 

Democrito, che 'l mondo a caso pone,
Diogenés, Anassagora e Tale,
Empedoclès, Eraclito e Zenone;

 

e vidi il buono accoglitor del quale,
Diascoride dico; e vidi Orfeo,
Tulio e Lino e Seneca morale;

 

Euclide geomètra e Tolomeo,
Ipocràte, Avicenna e Galieno,
Averoìs, che 'l gran comento feo.

 

Io non posso ritrar di tutti a pieno,
però che sì mi caccia il lungo tema,
che molte volte al fatto il dir vien meno.

 

La sesta compagnia in due si scema:
per altra via mi mena il savio duca,
fuor de la queta, ne l'aura che trema.

 

E vegno in parte ove non è che luca.

 

Commento

Il Canto descrive il Limbo, il I Cerchio dell'Inferno dove sono relegate le anime di coloro che vissero virtuosamente, ma non furono battezzati (come i bambini morti in tenera età) oppure vissero prima di Cristo (come i pagani, fra cui Virgilio stesso). Questi spiriti non sono dannati, la loro unica pena consiste in un desiderio eternamente inappagato di vedere Dio e non potranno mai salvarsi. Il nome Limbo significa «lembo» e indica l'orlo estremo della voragine infernale.

Protagonista nella prima parte del Canto è ovviamente Virgilio, che impallidisce al suo ritorno nel luogo infernale cui appartiene e suscita i timori di Dante, che è appena all'inizio del suo difficile viaggio nell'Oltretomba: il maestro spiega le ragioni della sua angoscia, dovuta al dramma spirituale vissuto da lui e da tutte le anime confinate nel Limbo, escluse dalla salvezza non perché abbiano commesso peccati, ma solo in quanto non hanno conosciuto la fede cristiana. Dante tocca qui il delicato tema dell'apparente ingiustizia della condizione di queste anime, fra le quali egli comprende subito che sono inclusi personaggi di altissimo riguardo e che sono esclusi dalla salvezza perché nati prima della venuta di Cristo (è il caso di Virgilio, ma anche dei principali filosofi e personaggi pagani mostrati più avanti) o vissuti in terre lontane dall'Occidente in cui è avvenuta storicamente la predicazione cristiana, senza contare il caso dei bambini morti prima di ricevere il battesimo (e infatti il pianto degli infanti è una sensazione uditiva che colpisce subito l'orecchio di Dante). Il poeta tornerà a più riprese su questo argomento che suscitava i dubbi suoi e di altri pensatori cristiani nel Medioevo, a cominciare dal Canto III del Purgatorio in cui proprio Virgilio spiegherà a Dante che la giustizia divina fa sì che i corpi umbratili delle anime possano subire pene fisiche e che questo mistero divino è incomprensibile alla ragione umana, come quello della Trinità (invano i filosofi antichi tentarono di dare risposta a simili questioni, così come ora essi desiderano invano conoscere Dio, destino che accomuna Aristotele, Platone e altri tra cui forse lo stesso poeta latino).
 

 

 

 

 

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