Riassunto |
Il canto quinto dell'Inferno di Dante Alighieri si svolge nel secondo cerchio, ove sono puniti i lussuriosi; siamo nella notte tra l'8 e il 9 aprile 1300 (Sabato Santo), o secondo altri commentatori tra il 25 e il 26 marzo 1300.
Alla sua guardia (del cerchio) sta Minosse che, con aspetto minaccioso, ha il compito di assegnare alle anime che passano il luogo della pena eterna. Il giudice infernale, vedendo che Dante è ancora vivo e non è in peccato, lo avverte di non fidarsi della strada che percorrerà e neppure di Virgilio come guida. Quest’ultimo però riesce a calmarlo, grazie ad una frase già usata con Caronte. I due poeti entrano nel luogo dove sono puniti i lussuriosi, travolti dalla bufera che castiga l’insana passione. Una schiera di anime incuriosisce Dante che chiede notizie al maestro. Virgilio prontamente risponde, ed elenca alcuni di questi lussuriosi, morti in modo cruento. Si sofferma su Semiramide e poi indica donne e uomini, protagonisti del passato mitologico e storico: Didone, Cleopatra, Elena, Achille, Paride, Tristano. Dante scorge due anime che procedono insieme e sono al vento più leggere. Egli domanda a Virgilio di potersi intrattenere con loro e quando si accostano le invita a restare e a parlare ed esse si fermano desiderose. I due infelici amanti, uniti anche nell’eternità, sono Paolo e Francesca. La donna rammenta la città natale, Ravenna, e accenna al suo innamoramento per Paolo, seguito dalla tragica morte per mano del marito Gianciotto, geloso e vendicativo. Un grande turbamento assale Dante che pensa ai casi dei due amanti, alla dolcezza del loro amore così tragicamente concluso. Per conoscere meglio la verità, non solo sulla passione di Paolo e Francesca, ma anche sulla passione amorosa in genere, chiede alla donna di parlare ancora. Tra le lacrime, lei gentile cede alla richiesta e ricorda il giorno in cui l’amore, da segreto sospiro, divenne realtà; ricorda il bacio di Paolo che dischiuse l’amore a lungo addormentato, ma diede anche inizio alla dolorosa tragedia. Qui si giunge al culmine della tensione e Dante, turbato e commosso, perde i sensi. |
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Parafrasi |
Così discesi del cerchio primaio giù nel secondo, che men loco cinghia, e tanto più dolor, che punge a guaio. |
Scesi dunque dal primo nel secondo cerchio, che contiene in sé meno spazio (essendo la sua circonferenza più piccola), ma una pena tanto più crudele, che spinge a lamentarsi. |
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Stavvi Minòs orribilmente, e ringhia: essamina le colpe ne l'intrata; giudica e manda secondo ch'avvinghia. |
Ivi si trova Minosse in atteggiamento terrificante, e ringhia: valuta, all’ingresso del cerchio, le colpe (dei peccatori); li giudica e li destina (ai rispettivi luoghi di punizione) a seconda del numero di volte che attorciglia (la coda intorno al proprio corpo). |
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Dico che quando l'anima mal nata li vien dinanzi, tutta si confessa; e quel conoscitor de le peccata |
Voglio dire che quando l’anima sciagurata si presenta al suo cospetto, rivela tutto di sé; e quel giudice dei peccati |
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vede qual loco d'inferno è da essa; cignesi con la coda tante volte quantunque gradi vuol che giù sia messa. |
comprende quale parte dell’inferno si addice ad essa; si avvolge con la coda tante volte per quanti cerchi infernali vuole che venga precipitata in basso. |
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Sempre dinanzi a lui ne stanno molte; vanno a vicenda ciascuna al giudizio; dicono e odono, e poi son giù volte. |
Davanti a lui ve ne sono sempre in gran numero: le une dopo le altre si sottopongono ciascuna al suo giudizio; si confessano e ascoltano (la sentenza), e poi vengono travolte nell’abisso. |
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«O tu che vieni al doloroso ospizio», disse Minòs a me quando mi vide, lasciando l'atto di cotanto offizio, |
O tu che giungi alla dimora del dolore", disse Minosse a me quando si accorse della mia presenza, interrompendo l’esercizio della sua così alta funzione, |
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«guarda com'entri e di cui tu ti fide; non t'inganni l'ampiezza de l'intrare!». E 'l duca mio a lui: "Perché pur gride? |
«considera attentamente il modo in cui stai per entrare (se hai cioè i meriti necessari per compiere incolume il viaggio nell’inferno) e colui in cui riponi la tua fiducia (Virgilio non è un’anima redenta): non lasciarti trarre in inganno dalla larghezza dell’ingresso!» E Virgilio di rimando: "Perché ti affatichi a gridare? |
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Non impedir lo suo fatale andare: vuolsi così colà dove si puote ciò che si vuole, e più non dimandare". |
Non ostacolare il suo viaggio predestinato: si vuole così là dove si può fare tutto ciò che si vuole, e non chiedere altro". |
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Or incomincian le dolenti note
a farmisi sentire; or son venuto là dove molto pianto mi percuote. |
A questo punto cominciano a farsi sentire le voci del dolore; ora sono arrivato là dove molti pianti colpiscono il mio udito. |
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Io venni in loco d'ogne luce muto, che mugghia come fa mar per tempesta, se da contrari venti è combattuto. |
Giunsi in un posto privo d’ogni chiarore, che rumoreggia come un mare in tempesta, sotto la furia di venti contrari. |
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La bufera infernal, che mai non resta, mena li spirti con la sua rapina; voltando e percotendo li molesta. |
La tempesta di questo cerchio dell’inferno, destinata a non avere mai tregua, trascina le anime con impeto travolgente: le tormenta facendole vorticare (in tutti i sensi) e facendole cozzare (fra loro). |
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Quando giungon davanti a la ruina, quivi le strida, il compianto, il lamento; bestemmian quivi la virtù divina. |
Quando giungono davanti alla rupe franata, qui prorompono in grida, in pianto unanime, in lamenti; bestemmiano qui la potenza di Dio. |
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Intesi ch'a così fatto tormento enno dannati i peccator carnali, che la ragion sommettono al talento. |
Compresi che a una siffatta pena sono condannati i lussuriosi, che sottomettono la ragione alla passione. |
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E come li stornei ne portan l'ali nel freddo tempo, a schiera larga e piena, così quel fiato li spiriti mali |
E come le ali portano nella stagione invernale gli stornelli, che si dispongono in gruppi ora diradati ora compatti, così da quel vento le anime perverse sono trascinate |
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di qua, di là, di giù, di sù li mena; nulla speranza li conforta mai, non che di posa, ma di minor pena. |
di qua, di là, in basso, in alto; mai nessuna speranza, non solo di una cessazione temporanea, ma nemmeno di un castigo alleviato, è loro di conforto. |
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E come i gru van cantando lor lai, faccendo in aere di sé lunga riga, così vid'io venir, traendo guai, |
E come le gru sono solite intonare i loro lamenti, quando solcano l’aria in lunghe file, così vidi avvicinarsi, emettendo gemiti, |
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ombre portate da la detta briga; per ch'i' dissi: «Maestro, chi son quelle genti che l'aura nera sì gastiga?». |
le anime portate dal turbine sopra menzionato: «per questo dissi: Chi sono mai, maestro, quegli spiriti che il vento buio in tal modo punisce?» |
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«La prima di color di cui novelle
tu vuo' saper», mi disse quelli allotta,
«fu imperadrice di molte favelle.
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Parafrasi: "La prima di quelle anime di cui tu mi chiedi notizia" mi rispose allora Virgilio, "regnò su molti popoli di lingua diversa. |
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A vizio di lussuria fu sì rotta,
che libito fé licito in sua legge,
per tòrre il biasmo in che era condotta.
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Parafrasi: Fu a tal punto dedita alla lussuria, che dichiarò, sotto le sue leggi, permesso ciò che a ciascuno piacesse, per cancellare la riprovazione in cui era incorsa. |
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Ell'è Semiramìs, di cui si legge
che succedette a Nino e fu sua sposa:
tenne la terra che 'l Soldan corregge.
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Parafrasi: E’ Semiramide, di cui le storie narrano che fu sposa di Nino, cui succedette (sul trono): fu sovrana della regione che attualmente il sultano governa. |
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L'altra è colei che s'ancise amorosa,
e ruppe fede al cener di Sicheo;
poi è Cleopatràs lussuriosa.
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Parafrasi: L’altra è Didone, che si tolse la vita, per amore, e non rimase fedele al marito morto, Sicheo, e c’e anche la lussuriosa Cleopatra. |
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Elena vedi, per cui tanto reo
tempo si volse, e vedi 'l grande Achille,
che con amore al fine combatteo.
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Parafrasi: Guarda Elena, a causa della quale trascorsero tanti anni luttuosi, e guarda il famoso Achille, che alla fine ebbe per avversario amore. |
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Vedi Parìs, «Tristano»; e più di mille
ombre mostrommi e nominommi a dito,
ch'amor di nostra vita dipartille.
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Parafrasi: Guarda Paride, «Tristano»; e mi indicò più di mille anime, facendo i nomi di persone che amore strappò alla vita. |
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Poscia ch'io ebbi il mio dottore udito
nomar le donne antiche e ' cavalieri,
pietà mi giunse, e fui quasi smarrito.
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Parafrasi: Dopo aver ascoltato il mio maestro in quella lunga rassegna di donne ed eroi dell’antichità, fui colto da compassione, e fui sul punto di perdere i sensi. |
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I' cominciai: «Poeta, volontieri
parlerei a quei due che 'nsieme vanno,
e paion sì al vento esser leggeri».
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Parafrasi: Presi a dire: "Poeta, desidererei parlare con quei due che procedono uniti, e che sembrano opporre così debole resistenza al vento". |
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Ed elli a me: «Vedrai quando saranno
più presso a noi; e tu allor li priega
per quello amor che i mena, ed ei verranno».
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Parafrasi: E Virgilio: " Farai attenzione al momento in cui ci saranno più vicini; e tu allora pregali in nome di quell’amore che li conduce, ed essi verranno. |
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Sì tosto come il vento a noi li piega,
mossi la voce: «O anime affannate,
venite a noi parlar, s'altri nol niega!».
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Parafrasi: Non appena il vento li volse verso di noi, dissi: "O anime tormentate, venite a parlarci, se qualcuno (Dio) non lo vieta!" |
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Quali colombe dal disio chiamate
con l'ali alzate e ferme al dolce nido
vegnon per l'aere dal voler portate;
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Parafrasi: Come le colombe, ubbidendo all’impulso amoroso, si dirigono nel cielo verso l’amato nido, planando con le ali spiegate e immobili, portate dal desiderio, |
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cotali uscir de la schiera ov'è Dido,
a noi venendo per l'aere maligno,
sì forte fu l'affettuoso grido.
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Parafrasi: così esse uscirono dalla schiera delle anime di cui fa parte anche Didone, venendo verso noi attraverso l’aria infernale, tanto efficace era stata la mia ardente preghiera. |
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«O animal grazioso e benigno
che visitando vai per l'aere perso
noi che tignemmo il mondo di sanguigno,
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Parafrasi: "O uomo cortese e benevolo che attraverso l’aria buia vieni a trovare noi che (morendo) macchiammo il mondo col nostro sangue, |
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se fosse amico il re de l'universo,
noi pregheremmo lui de la tua pace,
poi c'hai pietà del nostro mal perverso.
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Parafrasi: se il re del creato ci fosse amico, noi lo pregheremmo di darti serenità, dal momento che provi compassione per il nostro atroce tormento. |
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Di quel che udire e che parlar vi piace,
noi udiremo e parleremo a voi,
mentre che 'l vento, come fa, ci tace.
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Parafrasi: Ascolteremo e vi diremo quelle cose che vorrete dire e ascoltare, per tutto il tempo che la bufera, come fa (adesso), attenuerà la sua violenza. |
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Siede la terra dove nata fui
su la marina dove 'l Po discende
per aver pace co' seguaci sui.
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Parafrasi: La città dove nacqui si stende sul litorale verso il quale discende il Po per trovare, coi suoi affluenti, quiete. |
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Amor, ch'al cor gentil ratto s'apprende
prese costui de la bella persona
che mi fu tolta; e 'l modo ancor m'offende.
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Parafrasi: Amore, che rapidamente fa presa su un cuore nobile, si impadronì di Paolo per la mia bellezza fisica, bellezza di cui fui privata (quando venni uccisa); e l’intensità di questo amore fu tale, che ancora ne sono sopraffatta. |
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Amor, ch'a nullo amato amar perdona,
mi prese del costui piacer sì forte,
che, come vedi, ancor non m'abbandona.
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Parafrasi: Amore, che non permette che chi è amato non ami a sua volta, mi sospinse con tanta forza a innamorarmi della bellezza di Paolo, che, come ben puoi vedere (dal fatto che siamo uniti), ancora mi lega a lui. |
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Amor condusse noi ad una morte:
Caina attende chi a vita ci spense».
Queste parole da lor ci fuor porte.
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Parafrasi: Amore ci portò a morire insieme: colui che ci ha tolto la vita è atteso nel cerchio dei traditori (la Caina è la zona del nono cerchio destinata ai traditori dei parenti)." Queste parole ci vennero rivolte da loro. |
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Quand'io intesi quell'anime offense,
china' il viso e tanto il tenni basso,
fin che 'l poeta mi disse: «Che pense?».
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Parafrasi: Udite quelle anime travagliate, abbassai io sguardo, e lo tenni abbassato tanto a lungo, che alla fine Virgilio mi chiese: "A cosa pensi?" |
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Quando rispuosi, cominciai: «Oh lasso,
quanti dolci pensier, quanto disio
menò costoro al doloroso passo!».
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Parafrasi: Quando risposi, cominciai: "Ohimè, quanti teneri pensieri, quanto reciproco desiderio condusse.” |
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Poi mi rivolsi a loro e parla' io,
e cominciai: «Francesca, i tuoi martìri
a lagrimar mi fanno tristo e pio.
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Parafrasi: Poi, rivolto a loro, parlai, e dissi: "Francesca, le tue sofferenze mi rendono triste e pietoso fino alle lagrime. |
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Ma dimmi: al tempo d'i dolci sospiri,
a che e come concedette Amore
che conosceste i dubbiosi disiri?».
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Parafrasi: Però dimmi: quando la vostra passione si manifestava soltanto attraverso dolci sospiri, con quale indizio e in che modo Amore permise che l’uno conoscesse i sentimenti dell’altra, fino allora incerti d’essere corrisposti?" |
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E quella a me: «Nessun maggior dolore
che ricordarsi del tempo felice
ne la miseria; e ciò sa 'l tuo dottore.
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E Francesca "Nulla addolora maggiormente che ripensare ai momenti di gioia quando si è nel dolore; e di ciò è consapevole il tuo maestro. |
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Ma s'a conoscer la prima radice
del nostro amor tu hai cotanto affetto,
dirò come colui che piange e dice.
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Ma se un così affettuoso interesse ti spinge a interrogarmi sul modo in cui si manifestò per la prima volta il nostro amore, farò come chi parla tra le lagrime. |
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Noi leggiavamo un giorno per diletto
di Lancialotto come amor lo strinse;
soli eravamo e sanza alcun sospetto.
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Noi leggevamo un giorno, per svago, la storia di Lancillotto e dell’amore che s’impadronì di lui; eravamo soli e non avevamo nulla da temere. |
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Per più fiate li occhi ci sospinse
quella lettura, e scolorocci il viso;
ma solo un punto fu quel che ci vinse.
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Più volte quella lettura fece incontrare i nostri sguardi, e ci fece impallidire; ma solo un passo ebbe ragione di ogni nostra resistenza. |
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Quando leggemmo il disiato riso
esser basciato da cotanto amante,
questi, che mai da me non fia diviso,
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Quando leggemmo come la bocca desiderata (di Ginevra) fu baciata da un così nobile innamorato, Paolo, che mai sarà separato da me, |
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la bocca mi basciò tutto tremante.
Galeotto fu 'l libro e chi lo scrisse:
quel giorno più non vi leggemmo avante».
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mi baciò, trepidante, la bocca. Galeotto fu il libro e chi lo scrisse: quel giorno non proseguimmo oltre nella sua lettura". |
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Mentre che l'uno spirto questo disse,
l'altro piangea; sì che di pietade
io venni men così com'io morisse.
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Mentre una delle due anime diceva queste cose, l’altra (Paolo) piangeva, così che per la compassione perdetti i sensi non altrimenti che per morte. |
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E caddi come corpo morto cade.
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Commento |
Il Canto V è il primo dell'Inferno che ci mostra la pena di una categoria di dannati e Francesca è il primo peccatore a dialogare con Dante: troviamo anche una figura demoniaca, Minosse, che qui rappresenta il giudice dei dannati ed è ridotto a una bizzarra parodia della giustizia divina, essendo descritto come un essere mostruoso e animalesco, con una lunga coda che avvolge intorno a sé per indicare ai dannati il luogo infernale cui sono destinati (Guido da Montefeltro aggiungerà il particolare del dosso duro, cfr. Inf., XXVII, 125). Non sappiamo da dove Dante abbia tratto questa curiosa trasformazione, di cui non c'è traccia nei testi classici cui può essersi ispirato, ma è certo che Minosse qui si limita ad essere esecutore della volontà divina, una sorta di strumento che agisce senza la profonda dignità che aveva in Virgilio o negli altri poeti antichi; è probabilmente anche il custode del II Cerchio, anche se nulla autorizza a collegarlo al peccato di lussuria in quanto nel mito classico egli era descritto piuttosto come re saggio e giusto.
I lussuriosi sono trascinati da una bufera incessante, che simboleggia la forza della passione sessuale cui essi non seppero opporsi in vita (Dante li definisce peccator carnali, / che la ragion sommettono al talento). Molto probabilmente tra essi si distingue un'altra schiera, costituita dai lussuriosi morti violentemente, tra cui oltre ai due protagonisti del Canto ci sono vari personaggi del mito e della letteratura, come Didone, Achille, Tristano. Dante intende svolgere un discorso intorno alla letteratura amorosa, per condannarla in quanto fonte potenziale di peccato e pericolosa per quei lettori che potrebbero essere indotti a mettere in pratica i comportamenti descritti nei libri. Non a caso i lussuriosi nominati da Virgilio appartengono quasi tutti alla sfera letteraria o mitologica e Dante li definisce donne antiche e' cavalieri, con un riferimento preciso alla letteratura francese del ciclo arturiano (cui appartengono sia Tristano sia Lancillotto e Ginevra, citati dopo da Francesca). Dante stesso non ha bisogno di spiegazioni per capire che in questo Cerchio sono puniti i lussuriosi e ciò per il fatto che il poeta era stato avido lettore e produttore di letteratura amorosa, quindi si sente coinvolto in prima persona nel loro peccato (di qui il turbamento angoscioso che prova dall'inizio dell'episodio): la sua intenzione è condannare la letteratura che celebra l'amore sensuale e non spiritualizzato, quindi ritrattare parte della sua precedente produzione poetica, rappresentata dalle Petrose e forse anche dallo Stilnovo. Francesca è un personaggio significativo a riguardo, perché il caso suo e di Paolo era un episodio di cronaca che doveva essere ben presente ai lettori contemporanei. La vicenda, di cui non c'è comunque traccia nei cronisti del tempo, era quella di un adulterio tra Francesca da Polenta, figlia del signore di Ravenna, e il cognato Paolo Malatesta, fratello di Gianciotto che la donna aveva sposato in un matrimonio combinato per riappacificare le due famiglie. Gianciotto aveva scoperto la relazione e aveva ucciso entrambi.
Dante non intende affatto risarcire i due amanti clandestini della loro morte, né giustificare in alcun modo il loro peccato, ma piuttosto mettere in guardia tutti i lettori dai rischi insiti nella letteratura di argomento amoroso. Francesca, infatti, è una donna colta, esperta di letteratura: cita indirettamente Guinizelli e lo stesso Dante, dei quali riprende alcuni versi nella famosa anafora Amor... amor... amor, nonché le leggi del De amore di Andrea Cappellano, testo notissimo nel Medioevo e base teorica della lirica provenzale. Il suo amore con Paolo è nato per una reciproca attrazione fisica e l'occasione è venuta proprio dalla lettura di un libro, il romanzo cortese di Lancillotto e Ginevra (che Dante sicuramente non conosceva direttamente, ma attraverso qualche volgarizzamento tardo). La loro colpa non è tanto di essersi innamorati, ma di aver messo in pratica il comportamento peccaminoso dei due personaggi letterari; hanno scambiato la letteratura con la vita e ciò ha causato la loro irrevocabile dannazione.
La pietà provata da Dante verso di loro non è dunque una generica compassione né la riabilitazione del loro amore clandestino (errata è dunque l'interpretazione dei critici romantici, come De Sanctis), ma è il turbamento angoscioso di uno scrittore che prende coscienza della pericolosità della poesia amorosa da lui prodotta in passato. Non è del resto un caso che una lussuriosa sia il primo dannato descritto da Dante, mentre gli ultimi penitenti del Purgatorio (Canto XXVI) saranno Guido Guinizelli e Arnaut Daniel, condannati proprio in quanto poeti amorosi. |