inferno 7 canto
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Canto VII Inferno

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Riassunto

Il canto settimo dell'Inferno di Dante Alighieri si svolge nel quarto e nel quinto cerchio, ove sono puniti rispettivamente gli avari e prodighi e gli iracondi e accidiosi; siamo nella notte tra l'8 e il 9 aprile 1300 (Sabato Santo), o secondo altri commentatori tra il 25 e il 26 marzo 1300.

Nell’inutile tentativo di dissuadere Dante e Virgilio, Pluto si rivolge a loro con parole oscure che invoca l’autorità di Satana, ma pronta è la risposta di Virgilio. Egli, ric ordando la sconfitta del principe dell’Inferno, annuncia che, ancora una volta, dovrà piegarsi all’autorità divina. Superata l’ira di Pluto, discendono nel quarto girone degli avari e prodighi che si affrontano, in uno scontro senza tempo, lanciandosi reciproche accuse. Virgilio spiega a Dante la natura dell’avarizia e della prodigalità, causate dalla cecità che ha portato questi peccatori, lontani da ogni misura, ad un eccessivo attaccamento al denaro.
Nessuno di loro è degno di essere ricordato, perché tutti sono vissuti nell’egoistico godimento del denaro; il maggior numero di avari è costituito da religiosi, vittime privilegiate di questo vizio. L’affannarsi degli avari e prodighi per le ricchezze autorizza Virgilio ad aprire una lunga parentesi sulla fortuna, sulla sua natura provvidenziale e sulle sue leggi che, fuori dall’umana comprensione, regolano la vita degli uomini e presiedono alle alterne vicende della storia, come le potenze angeliche presiedono e ordinano il moto dei cieli.
Attraversando il quarto cerchio, si arriva a una fonte che si rovescia in un fossato e alimenta la palude Stigia dove sono punite le due schiere degli iracondi. I poeti costeggiano la palude e, assistendo ammutoliti allo spettacolo di assurda violenza, giungono infine ai piedi di una torre.
 

Parafrasi

«Pape Satàn, pape Satàn aleppe!»,
cominciò Pluto con la voce chioccia;
e quel savio gentil, che tutto seppe,
"Papé Satàn, papé Satàn aleppe!" prese a gridare Pluto con voce rauca; e quel nobile saggio (Virgilio), dalla sconfinata dottrina,
 
disse per confortarmi: «Non ti noccia
la tua paura; ché, poder ch'elli abbia,
non ci torrà lo scender questa roccia».
per rincuorarmi così mi parlò: "Il tuo spavento non ti arrechi danno; infatti, per quanto egli sia potente, non ci impedirà di scendere (dal terzo al quarto cerchio) per questo dirupo.
   
Poi si rivolse a quella 'nfiata labbia,
e disse: «Taci, maladetto lupo!
consuma dentro te con la tua rabbia.

Parafrasi: Quindi, rivolto verso quel tumido volto, disse: "Taci, maledetto demonio: struggiti internamente per la rabbia.

   

Non è sanza cagion l'andare al cupo:
vuolsi ne l'alto, là dove Michele
fé la vendetta del superbo strupo».

Parafrasi: Non senza motivo è la nostra andata nella voragine infernale: così si vuole nel cielo, là dove l’arcangelo Michele punì l’orgogliosa ribellione (di Lucifero e dei suoi seguaci)”.

   

Quali dal vento le gonfiate vele
caggiono avvolte, poi che l'alber fiacca,
tal cadde a terra la fiera crudele.

Parafrasi: Come le vele gonfiate dal vento cadono (confusamente) avviluppate, se l’albero della nave si spezza, così piombò a terra il mostro malvagio.

   
           Così scendemmo ne la quarta lacca
            pigliando più de la dolente ripa
           che 'l mal de l'universo tutto insacca.
Scendemmo in tal modo nella quarta fossa, percorrendo un altro tratto della china dolorosa che contiene tutto il male dell’universo.
   
           Ahi giustizia di Dio! tante chi stipa
           nove travaglie e pene quant'io viddi?
           e perché nostra colpa sì ne scipa?
Ahimè, giustizia di Dio! chi mai ammassa tanti inimmaginabili supplizi e dolori, quanti io ne vidi? e perché l’umana colpa a tal punto ci strazia?
   

Come fa l'onda là sovra Cariddi,
che si frange con quella in cui s'intoppa,
così convien che qui la gente riddi.

Come (nello stretto di Messina) presso Cariddi le onde (del mar Ionio) si infrangono cozzando contro quelle del mar Tirreno, così necessariamente avviene che qui le turbe ballino.
 
Qui vid'i' gente più ch'altrove troppa,
e d'una parte e d'altra, con grand'urli,
voltando pesi per forza di poppa.
Qui vidi una moltitudine più numerosa che in altri luoghi, la quale provenendo dall’uno e dall’altro lato del cerchio rotolava pesi, spingendoli col petto ed emettendo alti lamenti.
   

Percoteansi 'ncontro; e poscia pur lì
si rivolgea ciascun, voltando a retro,
gridando: «Perché tieni?» e «Perché burli?».

(Incontrandosi) cozzavano gli uni contro gli altri; e poi, in quello stesso punto, ognuno si volgeva indietro, rivoltando (anche il suo peso), e urlava: "Perché conservi? " e "Perché sperperi ? "
   
Così tornavan per lo cerchio tetro
da ogne mano a l'opposito punto,
gridandosi anche loro ontoso metro;
In tal maniera tornavano indietro attraverso il cerchio tenebroso da entrambe le direzioni fino al punto diametralmente opposto, gridandosi di nuovo (anche) il loro ritornello ingiurioso;
   

poi si volgea ciascun, quand'era giunto,
per lo suo mezzo cerchio a l'altra giostra.
E io, ch'avea lo cor quasi compunto,

   

dissi: «Maestro mio, or mi dimostra
che gente è questa, e se tutti fuor cherci
questi chercuti a la sinistra nostra».

   

Ed elli a me: «Tutti quanti fuor guerci
sì de la mente in la vita primaia,
che con misura nullo spendio ferci.

   

Assai la voce lor chiaro l'abbaia
quando vegnono a' due punti del cerchio
dove colpa contraria li dispaia.

   

Questi fuor cherci, che non han coperchio
piloso al capo, e papi e cardinali,
in cui usa avarizia il suo soperchio».

   

E io: «Maestro, tra questi cotali
dovre' io ben riconoscere alcuni
che furo immondi di cotesti mali».

   

Ed elli a me: «Vano pensiero aduni:
la sconoscente vita che i fé sozzi
ad ogne conoscenza or li fa bruni.

   

In etterno verranno a li due cozzi:
questi resurgeranno del sepulcro
col pugno chiuso, e questi coi crin mozzi.

   

Mal dare e mal tener lo mondo pulcro
ha tolto loro, e posti a questa zuffa:
qual ella sia, parole non ci appulcro.

   

Or puoi, figliuol, veder la corta buffa
d'i ben che son commessi a la fortuna,
per che l'umana gente si rabbuffa;

   

ché tutto l'oro ch'è sotto la luna
e che già fu, di quest'anime stanche
non poterebbe farne posare una».

   

«Maestro mio», diss'io, «or mi dì anche:
questa fortuna di che tu mi tocche,
che è, che i ben del mondo ha sì tra branche?».

   

E quelli a me: «Oh creature sciocche,
quanta ignoranza è quella che v'offende!
Or vo' che tu mia sentenza ne 'mbocche.

   

Colui lo cui saver tutto trascende, fece li cieli e diè lor chi conduce sì ch'ogne parte ad ogne parte splende,

   

distribuendo igualmente la luce.
Similemente a li splendor mondani
ordinò general ministra e duce

   

che permutasse a tempo li ben vani
di gente in gente e d'uno in altro sangue,
oltre la difension d'i senni umani;

   

per ch'una gente impera e l'altra langue,
seguendo lo giudicio di costei,
che è occulto come in erba l'angue.

   

Vostro saver non ha contasto a lei:
questa provede, giudica, e persegue
suo regno come il loro li altri dèi.

   

Le sue permutazion non hanno triegue;
necessità la fa esser veloce;
sì spesso vien chi vicenda consegue.

   

Quest'è colei ch'è tanto posta in croce
pur da color che le dovrien dar lode,
dandole biasmo a torto e mala voce;

 

ma ella s'è beata e ciò non ode:
con l'altre prime creature lieta
volve sua spera e beata si gode.

   

Or discendiamo omai a maggior pieta;
già ogne stella cade che saliva
quand'io mi mossi, e 'l troppo star si vieta».

   

Noi ricidemmo il cerchio a l'altra riva
sovr'una fonte che bolle e riversa
per un fossato che da lei deriva.

   

L'acqua era buia assai più che persa;
e noi, in compagnia de l'onde bige,
intrammo giù per una via diversa.

   

In la palude va c'ha nome Stige
questo tristo ruscel, quand'è disceso
al piè de le maligne piagge grige.

   

E io, che di mirare stava inteso,
vidi genti fangose in quel pantano,
ignude tutte, con sembiante offeso.

   

Queste si percotean non pur con mano,
ma con la testa e col petto e coi piedi,
troncandosi co' denti a brano a brano.

   

Lo buon maestro disse: «Figlio, or vedi
l'anime di color cui vinse l'ira;
e anche vo' che tu per certo credi

   

che sotto l'acqua è gente che sospira,
e fanno pullular quest'acqua al summo,
come l'occhio ti dice, u' che s'aggira.

   

Fitti nel limo, dicon: "Tristi fummo
ne l'aere dolce che dal sol s'allegra,
portando dentro accidioso fummo:

   

or ci attristiam ne la belletta negra".
Quest'inno si gorgoglian ne la strozza,
ché dir nol posson con parola integra».

   

Così girammo de la lorda pozza
grand'arco tra la ripa secca e 'l mézzo,
con li occhi vòlti a chi del fango ingozza.

   

Venimmo al piè d'una torre al da sezzo.

 

Commento

Il Canto è in gran parte dedicato al peccato di avarizia, che come già visto nel Canto I è considerato da Dante la radice di tutti i mali del mondo e la causa prima del disordine politico e morale rappresentato dalla selva oscura del paesaggio iniziale: simbolo di tale peccato, nonché guardiano demoniaco del IV Cerchio, è Pluto, il cui aspetto animalesco rimanda alla lupa dalla quale Dante era stato soccorso da Virgilio, per quanto non sia possibile stabilire da dove Dante abbia tratto questa curiosa trasformazione del dio classico (problema analogo si è visto nel caso di Minosse, mentre per Pluto si aggiunge la difficoltà di stabilire con precisione se si tratti del dio greco delle ricchezze Pluto o di Ade-Plutone, sposo di Proserpina). Secondo uno schema narrativo ricorrente nel corso della Cantica, anche Pluto tenta vanamente di opporsi al passaggio di Dante e anche in questo caso l'ostacolo è superato da Virgilio, che sembra afferrare il senso delle sue misteriose parole e lo mette a tacere con la solita formula che rammenta l'ineluttabilità del viaggio dantesco, anche col riferimento all'arcangelo Michele che aveva punito Lucifero di cui, forse, Pluto è figura come Cerbero e le altre divinità classiche demonizzate. Sta di fatto che Pluto si acquieta non diversamente dal cane trifauce, simile alle vele di una nave che cadono a terra quando non sono più gonfiate dal vento, a signifcare forse l'inconsistenza della sua minaccia.

Protagonisti della parte centrale del Canto sono poi avari e prodighi, il cui numero in questo Cerchio è tale da suscitare la più viva sorpresa da parte di Dante: la loro pena ha qualcosa di grottesco ed è infatti descritta con toni fortemente comico-realistici, in quanto questi dannati sono costretti a voltolare dei massi, come in una assurda giostra, dicendosi parole ingiuriose che alludono reciprocamente ai loro peccati. Questo è l'unico Cerchio infernale in cui è detto chiaramente che ad essere puniti sono due peccati opposti, secondo il principio aristotelico in medio stat virtus, per cui tanto gli avari quanto i prodighi non hanno saputo osservare una giusta misura nelle loro spese e i primi sono stati troppo stretti, i secondi troppo larghi: non sappiamo se ciò valga anche per le altre zone, o se sia un caso unico nella topografia morale dell'Inferno, mentre è evidente che il peccato commesso dai prodighi è diverso da quello degli scialacquatori, che non si sono limitati a spendere troppo ma hanno sperperato in maniera dissennata tutto il loro patrimonio, per cui li troveremo tra i peccatori di violenza del VII Cerchio.

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