Divina Commedia / Inferno / Canto XIII
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Canto XIII Inferno

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Riassunto

Il canto tredicesimo dell'Inferno di Dante Alighieri si svolge nel secondo girone del settimo cerchio, ove sono puniti i violenti contro sé stessi; siamo all'alba del 9 aprile 1300 (Sabato Santo), o secondo altri commentatori del 26 marzo 1300.

I due poeti si addentrano nel secondo girone del settimo cerchio, in un bosco di piante secche, contorte e spinose, abitato dalle mostruose Arpie, uccelli dal volto umano. Non si vedono anime di peccatori, ma se ne odono i lamenti. Esortato dal maestro, Dante stacca un ramoscello da un grande pruno e questo, attraverso la ferita, incomincia a sanguinare e a parlare. Virgilio scusa il suo discepolo ed invita l’anima imprigionata nell’albero a rivelare il suo nome. E il tronco parla: fu Pier delle Vigne, ministro dell’imperatore Federico II; si uccise perché, ingiustamente accusato dai cortigiani invidiosi del suo ascendente sul sovrano, era caduto in disgrazia. Davanti a Dante, che in terra potrà riabilitarne la memoria, giura che mai tradì la fiducia in lui riposta dal suo sovrano. Poi narra come le anime dei suicidi, dopo essere cadute nella selva, trasformatesi in piante, vengano crudelmente dilaniate dalle Arpie.

Dopo il Giudizio Universale i corpi di questi peccatori saranno appesi ciascuno all’albero nel quale è incarcerata la loro anima.

Parafrasi

Non era ancor di là Nesso arrivato,
quando noi ci mettemmo per un bosco
che da neun sentiero era segnato.
Nesso non era, ancora arrivato di là (dal guado), quando noi entrammo in un bosco che non aveva alcuna traccia di sentieri.
 
Non fronda verde, ma di color fosco;
non rami schietti, ma nodosi e 'nvolti;
non pomi v'eran, ma stecchi con tòsco:
Non c’erano foglie verdi, ma di colore scuro; non rami lisci e diritti, ma nodosi e contorti; non frutti, ma spine con veleno:
 
       non han sì aspri sterpi né sì folti
        quelle fiere selvagge che 'n odio hanno
        tra Cecina e Corneto i luoghi cólti.

quegli animali selvaggi che (in Maremma) tra il fiume Cecina e la località di Corneto odiano i luoghi coltivati, non hanno (per loro dimora) macchie così irte e pungentì e così folte.

 
      Quivi le brutte Arpie lor nidi fanno,
      che cacciar de le Strofade i Troiani
      con tristo annunzio di futuro danno.
Qui fanno i loro nidi le sozze Arpie, che costrinsero alla fuga dalle isole Strofadi i Troiani con la funesta profezia di mali futuri.
   

Ali hanno late, e colli e visi umani, piè con artigli, e pennuto 'l gran ventre;
fanno lamenti in su li alberi strani.

Hanno ali larghe, colli e facce di esseri umani, piedi con artigli, e il grande ventre coperto di penne; si lamentano, in modo strano, sugli alberi.
 
      E 'l buon maestro «Prima che più entre,
      sappi che se' nel secondo girone»,
      mi cominciò a dire, «e sarai mentre
E il valente maestro: "Prima che tu ti inoltri, sappi che sei nel secondo girone "cominciò a dirmi," e vi starai fino a quando
 

che tu verrai ne l'orribil sabbione.
Però riguarda ben; sì vederai
cose che torrien fede al mio sermone».

tu arriverai all’orribile distesa sabbiosa: perciò guarda ripetutamente e con attenzione; così facendo vedrai cose tali che toglierebbero credito alle mie parole".
 

Io sentia d'ogne parte trarre guai,
e non vedea persona che 'l facesse;
per ch'io tutto smarrito m'arrestai.

lo sentivo da ogni parte emettere lamenti acuti, e non vedevo nessuno che li facesse; per questo tutto smarrito mi fermai.
   
Cred'io ch'ei credette ch'io credesse
che tante voci uscisser, tra quei bronchi
da gente che per noi si nascondesse.
Ritengo che Virgilio pensasse che io credessi che voci così numerose uscissero, (passando) tra quegli alberi secchi, da gente che si nascondesse a noi.
   

Però disse 'l maestro: «Se tu tronchi
qualche fraschetta d'una d'este piante,
li pensier c'hai si faran tutti monchi».

Perciò il maestro disse: "Se tu spezzi un qualsiasi ramoscello di una di queste piante, i tuoi pensieri si dimostreranno tutti erronei".
   

Allor porsi la mano un poco avante,
e colsi un ramicel da un gran pruno;
e 'l tronco suo gridò: «Perché mi schiante?».

   

Da che fatto fu poi di sangue bruno,
ricominciò a dir: «Perché mi scerpi?
non hai tu spirto di pietade alcuno?

   

Uomini fummo, e or siam fatti sterpi:
ben dovrebb'esser la tua man più pia,
se state fossimo anime di serpi».

   

Come d'un stizzo verde ch'arso sia
da l'un de'capi, che da l'altro geme
e cigola per vento che va via,

   

sì de la scheggia rotta usciva insieme
parole e sangue; ond'io lasciai la cima
cadere, e stetti come l'uom che teme.

   

«S'elli avesse potuto creder prima»,
rispuose 'l savio mio, «anima lesa,
ciò c'ha veduto pur con la mia rima,

   

non averebbe in te la man distesa;
ma la cosa incredibile mi fece
indurlo ad ovra ch'a me stesso pesa.

   

Ma dilli chi tu fosti, sì che 'n vece
d'alcun'ammenda tua fama rinfreschi
nel mondo sù, dove tornar li lece».

   

E 'l tronco: «Sì col dolce dir m'adeschi,
ch'i' non posso tacere; e voi non gravi
perch'io un poco a ragionar m'inveschi.

   

Io son colui che tenni ambo le chiavi
del cor di Federigo, e che le volsi,
serrando e diserrando, sì soavi,

   

che dal secreto suo quasi ogn'uom tolsi:
fede portai al glorioso offizio,
tanto ch'i' ne perde' li sonni e ' polsi.

   

La meretrice che mai da l'ospizio
di Cesare non torse li occhi putti,
morte comune e de le corti vizio,

   

infiammò contra me li animi tutti;
e li 'nfiammati infiammar sì Augusto,
che ' lieti onor tornaro in tristi lutti.

   

L'animo mio, per disdegnoso gusto,
credendo col morir fuggir disdegno,
ingiusto fece me contra me giusto.

   

Per le nove radici d'esto legno
vi giuro che già mai non ruppi fede
al mio segnor, che fu d'onor sì degno.

   

E se di voi alcun nel mondo riede,
conforti la memoria mia, che giace
ancor del colpo che 'nvidia le diede».

   

Un poco attese, e poi «Da ch'el si tace»,
disse 'l poeta a me, «non perder l'ora;
ma parla, e chiedi a lui, se più ti piace».

   

Ond'io a lui: «Domandal tu ancora
di quel che credi ch'a me satisfaccia;
ch'i' non potrei, tanta pietà m'accora».

   

Perciò ricominciò: «Se l'om ti faccia
liberamente ciò che 'l tuo dir priega,
spirito incarcerato, ancor ti piaccia

   

di dirne come l'anima si lega
in questi nocchi; e dinne, se tu puoi,
s'alcuna mai di tai membra si spiega».

 

Allor soffiò il tronco forte, e poi
si convertì quel vento in cotal voce:
«Brievemente sarà risposto a voi.

   

Quando si parte l'anima feroce
dal corpo ond'ella stessa s'è disvelta,
Minòs la manda a la settima foce.

   

Cade in la selva, e non l'è parte scelta;
ma là dove fortuna la balestra,
quivi germoglia come gran di spelta.

   

Surge in vermena e in pianta silvestra:
l'Arpie, pascendo poi de le sue foglie,
fanno dolore, e al dolor fenestra.

   

Come l'altre verrem per nostre spoglie,
ma non però ch'alcuna sen rivesta,
ché non è giusto aver ciò ch'om si toglie.

   

Qui le trascineremo, e per la mesta
selva saranno i nostri corpi appesi,
ciascuno al prun de l'ombra sua molesta».

   

Noi eravamo ancora al tronco attesi,
credendo ch'altro ne volesse dire,
quando noi fummo d'un romor sorpresi,

   

similemente a colui che venire
sente 'l porco e la caccia a la sua posta,
ch'ode le bestie, e le frasche stormire.

   

Ed ecco due da la sinistra costa,
nudi e graffiati, fuggendo sì forte,
che de la selva rompieno ogni rosta.

   

Quel dinanzi: «Or accorri, accorri, morte!».
E l'altro, cui pareva tardar troppo,
gridava: «Lano, sì non furo accorte

   

le gambe tue a le giostre dal Toppo!».
E poi che forse li fallia la lena,
di sé e d'un cespuglio fece un groppo.

   

Di rietro a loro era la selva piena
di nere cagne, bramose e correnti
come veltri ch'uscisser di catena.

   

In quel che s'appiattò miser li denti,
e quel dilaceraro a brano a brano;
poi sen portar quelle membra dolenti.

   

Presemi allor la mia scorta per mano,
e menommi al cespuglio che piangea,
per le rotture sanguinenti in vano.

   

«O Iacopo», dicea, «da Santo Andrea,
che t'è giovato di me fare schermo?
che colpa ho io de la tua vita rea?».

   

Quando 'l maestro fu sovr'esso fermo,
disse «Chi fosti, che per tante punte
soffi con sangue doloroso sermo?».

 

Ed elli a noi: «O anime che giunte
siete a veder lo strazio disonesto
c'ha le mie fronde sì da me disgiunte,

 

raccoglietele al piè del tristo cesto.
I' fui de la città che nel Batista
mutò il primo padrone; ond'ei per questo

 

sempre con l'arte sua la farà trista;
e se non fosse che 'n sul passo d'Arno
rimane ancor di lui alcuna vista,

 

que' cittadin che poi la rifondarno
sovra 'l cener che d'Attila rimase,
avrebber fatto lavorare indarno.

 
Io fei gibbetto a me de le mie case».
 

Commento

Il Canto è totalmente dedicato alla selva dei suicidi, dove sono puniti anche gli scialacquatori e che è popolata da animali demoniaci (le Arpie e le nere cagne che azzannano i violenti contro il patrimonio). L'episodio è anche fitto di rimandi letterari, sia per il riferimento all'Eneide di Virgilio, sia per la figura stessa di Pier della Vigna che fu, com'è noto, poeta siciliano e retore alla corte di Federico II.

La descrizione iniziale della selva è degna di un cupo paesaggio infernale, con ovvi rimandi alla selva oscura del Canto iniziale (anche se questa è ancor più spaventosa: nessun sentiero la attraversa, le foglie degli alberi sono nere, i rami sono aggrovigliati...); su tutto dominano poi le Arpie, gli uccelli mitologici dal volto di donna già citati nel libro III dell'Eneide come i mostri che cacciarono i Troiani dalle isole Strofadi preannunciando loro una terribile fame una volta giunti nel Lazio, profezia che si sarebbe rivelata mendace. Le Arpie nidificano nella selva e si nutrono delle foglie degli alberi, producendo dolore alle anime dei suicidi che vi sono imprigionate. Non è chiaro da dove Dante abbia tratto il legame tra queste figure e il suicidio, visto che nel mito classico erano piuttosto associate alla rapina e alla furia.

La scena di Dante che, indotto da Virgilio, spezza il ramo dell'albero di Pier della Vigna da cui esce sangue è ovviamente modellata sul libro III dell'Eneide, anche se l'episodio di Enea e Polidoro (vv. 42 ss.) è rielaborato e ampliato da Dante, che trasforma l'immagine della pianta sotto cui è sepolto il figlio di Priamo in un'allucinante selva (la scena sarà ripresa da Tasso nella Gerusalemme liberata, nell'episodio di Tancredi nella selva di Saron).

 DANTE ALIGHIERI
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