verifiche xv canto inferno
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Canto XV Inferno

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Riassunto

Il canto quindicesimo dell'Inferno di Dante Alighieri si svolge nel terzo girone del settimo cerchio, ove sono puniti i violenti contro Dio, natura e arte; siamo all'alba del 9 aprile 1300 (Sabato Santo), o secondo altri commentatori del 26 marzo 1300.

Per evitare la pioggia di fiamme, i due pellegrini avanzano su uno degli argini del fiumicello che attraversa il terzo girone e s’imbattono in una schiera di anime di dannati, uno dei quali afferra Dante per il lembo della veste e manifesta la propria meraviglia nel vederlo in quel luogo.

Il Poeta lo riconosce, nonostante abbia il volto devastato dal fuoco: Brunetto Latini, il suo maestro, che esprime il desiderio di affiancarsi a lui nel cammino.

Nessuno, infatti, dei violenti contro natura può interrompere il proprio andare: chi infrange questa legge è poi condannato a giacere cento anni sotto la pioggia di fuoco senza poter scuotere da sé le fiamme che lo colpiscono. Dante continua pertanto a camminare sull’argine e riceve da Brunetto la predizione della sorte che il futuro gli riserva: "Se rimani fedele ai principii che hanno fin qui ispirato le tue azioni, la tua opera ti darà la gloria". Poi il discorso cade su Firenze e la faziosità dei Fiorentini, in massima parte discendenti dai rozzi abitanti di Fiesole, avari, invidiosi, superbi. Sia l’uno sia l’altro Partito in cui la città è divisa - aggiunge Brunetto - cercherà di avere Dante in suo potere, ma non riuscirà in questo intento. Il Poeta a sua volta tesse l’elogio del suo maestro, dal quale ha appreso come l’uomo ottiene gloria fra i posteri, e dichiara che questa profezia, come quella di un altro spirito, Farinata degli Uberti, verrà sottoposta all’interpretazione di Beatrice. Per il resto si dice pronto a far fronte ai colpi del destino. Pregato dal Poeta, Brunetto nomina alcuni fra gli spiriti condannati alla sua stessa pena, quindi si accommiata, raccomandandogli la sua opera maggiore, il Tesoro, attraverso la quale sopravviverà nel ricordo degli uomini.
 

Parafrasi

Ora cen porta l'un de' duri margini;
e 'l fummo del ruscel di sopra aduggia,
sì che dal foco salva l'acqua e li argini.
Ora ci porta una delle due salde sponde; e il vapore del ruscello fa schermo, in modo da riparare dalle fiamme l’acqua e gli argini.
 
Quali Fiamminghi tra Guizzante e Bruggia,
temendo 'l fiotto che 'nver lor s'avventa,
fanno lo schermo perché 'l mar si fuggia;
Come la diga che i Fiamminghi, temendo la marea che si scaglia contro di loro, innalzano tra Wissant e Bruges perché il mare si ritiri;
 
e quali Padoan lungo la Brenta,
per difender lor ville e lor castelli,
anzi che Carentana il caldo senta:
e come quella che i Padovani (innalzano) lungo il corso del Brenta, per proteggere le loro città e i loro borghi fortificati, prima che la Carinzia (comprendeva anche la Valsugana dove nasce il Brenta) senta il caldo (che, sciogliendo le nevi, fa ingrossare i fiumi),
 
a tale imagine eran fatti quelli,
tutto che né sì alti né sì grossi,
qual che si fosse, lo maestro felli.
in tal modo erano costruiti quegli argini, benché l’artefice, chiunque egli fosse stato, non li avesse fatti né così alti né così larghi.
   
Già eravam da la selva rimossi
tanto, ch'i' non avrei visto dov'era,
perch'io in dietro rivolto mi fossi,
Già ci eravamo allontanati dalla selva tanto, che non avrei veduto dove essa era, anche se io mi fossi voltato indietro,
   
quando incontrammo d'anime una schiera
che venìan lungo l'argine, e ciascuna
ci riguardava come suol da sera
quando incontrammo un gruppo di anime che camminavano lungo l’argine, e ognuna ci osservava come ci si scruta di sera
   
guardare uno altro sotto nuova luna;
e sì ver' noi aguzzavan le ciglia
come 'l vecchio sartor fa ne la cruna.
nel periodo del novilunio; e aguzzavano lo sguardo verso di noi avvicinando l’una all’altra le palpebre così come il vecchio sarto fa (nello sforzo di introdurre il filo) nella cruna dell’ago.
   

Così adocchiato da cotal famiglia,
fui conosciuto da un, che mi prese
per lo lembo e gridò: «Qual maraviglia!».

Osservato in tal modo da questa schiera, fui riconosciuto da uno, che afferrò l’orlo della mia veste e gridò: "Quale sorpresa!"
   

E io, quando 'l suo braccio a me distese,
ficcai li occhi per lo cotto aspetto,
sì che 'l viso abbrusciato non difese

Parafrasi:
   

la conoscenza sua al mio 'ntelletto;
e chinando la mano a la sua faccia,
rispuosi: «Siete voi qui, ser Brunetto?».

Parafrasi:
   

E quelli: «O figliuol mio, non ti dispiaccia
se Brunetto Latino un poco teco
ritorna 'n dietro e lascia andar la traccia».

Parafrasi:
   

I' dissi lui: «Quanto posso, ven preco;
e se volete che con voi m'asseggia,
faròl, se piace a costui che vo seco».

Parafrasi:
   

«O figliuol», disse, «qual di questa greggia
s'arresta punto, giace poi cent'anni
sanz'arrostarsi quando 'l foco il feggia.

Parafrasi:
   

Però va oltre: i' ti verrò a' panni;
e poi rigiugnerò la mia masnada,
che va piangendo i suoi etterni danni».

Parafrasi:
   

I' non osava scender de la strada
per andar par di lui; ma 'l capo chino
tenea com'uom che reverente vada.

Parafrasi:
   

El cominciò: «Qual fortuna o destino
anzi l'ultimo dì qua giù ti mena?
e chi è questi che mostra 'l cammino?».

Parafrasi:
   

«Là sù di sopra, in la vita serena»,
rispuos'io lui, «mi smarri' in una valle,
avanti che l'età mia fosse piena.

Parafrasi:
   

Pur ier mattina le volsi le spalle:
questi m'apparve, tornand'io in quella,
e reducemi a ca per questo calle».

Parafrasi:
   

Ed elli a me: «Se tu segui tua stella,
non puoi fallire a glorioso porto,
se ben m'accorsi ne la vita bella;

Parafrasi:
   

e s'io non fossi sì per tempo morto,
veggendo il cielo a te così benigno,
dato t'avrei a l'opera conforto.

Parafrasi:
   

Ma quello ingrato popolo maligno
che discese di Fiesole ab antico,
e tiene ancor del monte e del macigno,

Parafrasi:
   

ti si farà, per tuo ben far, nimico:
ed è ragion, ché tra li lazzi sorbi
si disconvien fruttare al dolce fico.

Parafrasi:
   

Vecchia fama nel mondo li chiama orbi;
gent'è avara, invidiosa e superba:
dai lor costumi fa che tu ti forbi.

Parafrasi:
   

La tua fortuna tanto onor ti serba,
che l'una parte e l'altra avranno fame
di te; ma lungi fia dal becco l'erba.

Parafrasi:
   

Faccian le bestie fiesolane strame
di lor medesme, e non tocchin la pianta,
s'alcuna surge ancora in lor letame,

Parafrasi:
   

in cui riviva la sementa santa
di que' Roman che vi rimaser quando
fu fatto il nido di malizia tanta».

Parafrasi:
   

«Se fosse tutto pieno il mio dimando»,
rispuos'io lui, «voi non sareste ancora
de l'umana natura posto in bando;

Parafrasi:
   

ché 'n la mente m'è fitta, e or m'accora,
la cara e buona imagine paterna
di voi quando nel mondo ad ora ad ora

Parafrasi:
   

m'insegnavate come l'uom s'etterna:
e quant'io l'abbia in grado, mentr'io vivo
convien che ne la mia lingua si scerna.

Parafrasi:
   

Ciò che narrate di mio corso scrivo,
e serbolo a chiosar con altro testo
a donna che saprà, s'a lei arrivo.

Parafrasi:
   

Tanto vogl'io che vi sia manifesto,
pur che mia coscienza non mi garra,
che a la Fortuna, come vuol, son presto.

Parafrasi:
 

Non è nuova a li orecchi miei tal arra:
però giri Fortuna la sua rota
come le piace, e 'l villan la sua marra».

Parafrasi:
   

Lo mio maestro allora in su la gota
destra si volse in dietro, e riguardommi;
poi disse: «Bene ascolta chi la nota».

Parafrasi:
   

Né per tanto di men parlando vommi
con ser Brunetto, e dimando chi sono
li suoi compagni più noti e più sommi.

Parafrasi:
   

Ed elli a me: «Saper d'alcuno è buono;
de li altri fia laudabile tacerci,
ché 'l tempo sarìa corto a tanto suono.

Parafrasi:
   

In somma sappi che tutti fur cherci
e litterati grandi e di gran fama,
d'un peccato medesmo al mondo lerci.

Parafrasi:
   

Priscian sen va con quella turba grama,
e Francesco d'Accorso anche; e vedervi,
s'avessi avuto di tal tigna brama,

Parafrasi:
   

colui potei che dal servo de' servi
fu trasmutato d'Arno in Bacchiglione,
dove lasciò li mal protesi nervi.

Parafrasi:
   

Di più direi; ma 'l venire e 'l sermone
più lungo esser non può, però ch'i' veggio
là surger nuovo fummo del sabbione.

Parafrasi:
   

Gente vien con la quale esser non deggio.
Sieti raccomandato il mio Tesoro
nel qual io vivo ancora, e più non cheggio».

Parafrasi:
   

Poi si rivolse, e parve di coloro
che corrono a Verona il drappo verde
per la campagna; e parve di costoro

Parafrasi:
 

quelli che vince, non colui che perde.

 

Commento

Protagonista assoluto del Canto è Brunetto Latini, il notaio e uomo politico fiorentino che fu anche maestro di retorica ed ebbe fra i suoi allievi il giovane Dante. L'autore della Commedia lo rievoca in questo episodio con grande affetto sul piano umano, ma anche con una ferma condanna della sua sodomia di cui non si hanno testimonianze certe a parte quella ambigua di Giovanni Villani che lo definisce «mondano uomo». Presente sullo sfondo è anche la città di Firenze, patria di entrambi e colpita da Brunetto con una dura invettiva nel predire l'esilio al discepolo.

L'atteggiamento di Dante verso l'antico maestro è di stupore nel vederlo dannato (Siete voi qui, ser Brunetto?), di profonda deferenza e rispetto (gli dà del voi, come fa con Farinata, Cavalcante, Cacciaguida e Beatrice, lo chiama col titolo onorifico ser), ne rievoca affettuosamente la cara e buona immagine paterna di quando a Firenze gli insegnava ad acquistare fama imperitura, esprime la sua eterna gratitudine per il magistero ricevuto. Ciò nondimeno lo colloca tra i dannati, il che dimostra che c'è un contrasto netto tra la fama e i meriti terreni, letterari e politici, e la giustizia divina, implacabile con chi si è macchiato di gravi colpe. Si ripete la stessa situazione già vista con gli illustri fiorentini ch'a ben far puoser li 'ngegni, tra cui Farinata e Tegghiaio Aldobrandi la cui dannazione è stata preannunciata da Ciacco e che sono, moralmente, tra l'anime più nere. Anche Brunetto, inoltre, si dimostra poco consapevole della propria colpa e ancora attaccato alla vita terrena, dal momento che si complimenta con Dante per il privilegio di poter visitare da vivo il regno dei morti e sembra credere che ciò sia dovuto esclusivamente ai suoi meriti di intellettuale e politico, come già Cavalcante aveva parlato di altezza d'ingegno.
La spiegazione di Dante è volutamente ambigua, con l'accenno allo smarrimento nella selva oscura e a Virgilio come colui che lo riporta a ca, sul retto cammino attraverso l'Inferno: Dante indica Virgilio come il suo vero maestro morale, ma Brunetto non sembra comprendere le sue parole e osserva che Dante deve seguire la sua stella che lo condurrà a glorioso porto, ovvero alla gloria letteraria e politica cui è destinato come lo stesso Brunetto si era accorto quando era in vita.

 DANTE ALIGHIERI
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