Riassunto |
Il canto ventunesimo dell'Inferno di Dante Alighieri si svolge nella quinta bolgia dell'ottavo cerchio, ove sono puniti i malversatori; siamo nel mattino del 9 aprile 1300 (Sabato Santo), o secondo altri commentatori del 26 marzo 1300.
I due pellegrini giungono sul ponte che scavalca la quinta bolgia, straordinariamente buia a causa della pece bollente che ne occupa il fondo e nella quale sono immersi i barattieri, coloro cioè che fecero commercio dei pubblici uffici. Mentre Dante è intento a guardare in basso, sopraggiunge veloce un diavolo e, dall’alto del ponte, getta nella pece uno degli “anziani” di Lucca, città nella quale, a suo dire, tutti sono barattieri. Il dannato, dopo il tuffo violento, viene a galla, ma i custodi della bolgia, i Malebranche, lo costringono ad immergersi nuovamente. A questo punto Virgilio, dopo aver fatto nascondere Dante dietro uno spuntone roccioso, si dirige verso i diavoli e fa presente al loro capo, Malacoda, che il viaggio intrapreso da lui e dal suo discepolo è voluto dal cielo; poi invita Dante ad uscire dal suo nascondiglio. Alla sua vista i Malebranche tentano di uncinarlo; occorre che Malacoda faccia ricorso a tutta la sua autorità perché desistano dal loro proposito. Malacoda fornisce quindi a Virgilio indicazioni riguardo allo scoglio che porta alla sesta bolgia, essendo crollato, su quest’ultima, il ponte posto in continuazione di quelli che i due poeti hanno fino a questo punto percorso. Dà poi loro come scorta un gruppo di dieci suoi sottoposti, comandati da Barbariccia. |
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Così di ponte in ponte, altro parlando che la mia comedìa cantar non cura, venimmo; e tenavamo il colmo, quando. |
Così, parlando di altre cose che la mia Commedia non si cura di riferire, giungemmo all'altro ponte; ed eravamo sul punto più alto, quando |
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restammo per veder l'altra fessura di Malebolge e li altri pianti vani;, e vidila mirabilmente oscura. |
ci fermammo per vedere l'altra Bolgia e gli altri inutili pianti dei dannati; e la vidi incredibilmente oscura. |
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Quale ne l'arzanà de' Viniziani bolle l'inverno la tenace pece a rimpalmare i legni lor non sani, |
Come nell'Arsenale dei Veneziani d'inverno bolle la pece viscosa per riparare le loro navi danneggiate, |
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ché navicar non ponno - in quella vece chi fa suo legno novo e chi ristoppa le coste a quel che più viaggi fece; |
poiché non possono navigare (intanto alcuni costruiscono uno scafo nuovo e altri riparano le fiancate alle navi che fecero molti viaggi in mare; |
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chi ribatte da proda e chi da poppa; altri fa remi e altri volge sarte; chi terzeruolo e artimon rintoppa -; |
alcuni battono i chiodi da prora o da poppa; altri riparano i remi e avvolgono le sartie; altri rappezzano il terzeruolo e l'artimone); |
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tal, non per foco, ma per divin'arte, bollia là giuso una pegola spessa, che 'nviscava la ripa d'ogne parte. |
così laggiù bolliva una spessa pece, non per un fuoco ma per arte divina, la quale invischiava ogni lato delle pareti della Bolgia. |
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I' vedea lei, ma non vedea in essa mai che le bolle che 'l bollor levava, e gonfiar tutta, e riseder compressa. |
Io vedevo la pece, ma dentro di essa non vedevo altro che le bolle che affioravano in superficie, e la vedevo gonfiarsi tutta per poi abbassarsi. |
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Mentr'io là giù fisamente mirava, lo duca mio, dicendo «Guarda, guarda!», mi trasse a sé del loco dov'io stava. |
Mentre io fissavo attentamente in basso, il mio maestro mi tirò a sé dal punto dove stavo, dicendomi: «Guarda, guarda!» |
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Allor mi volsi come l'uom cui tarda di veder quel che li convien fuggire e cui paura sùbita sgagliarda,
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che, per veder, non indugia 'l partire: e vidi dietro a noi un diavol nero correndo su per lo scoglio venire.
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Ahi quant'elli era ne l'aspetto fero! e quanto mi parea ne l'atto acerbo, con l'ali aperte e sovra i piè leggero!
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L'omero suo, ch'era aguto e superbo, carcava un peccator con ambo l'anche, e quei tenea de' piè ghermito 'l nerbo.
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Del nostro ponte disse: «O Malebranche, ecco un de li anzian di Santa Zita! Mettetel sotto, ch'i' torno per anche
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a quella terra che n'è ben fornita: ogn'uom v'è barattier, fuor che Bonturo; del no, per li denar vi si fa ita».
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Là giù 'l buttò, e per lo scoglio duro si volse; e mai non fu mastino sciolto con tanta fretta a seguitar lo furo.
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Quel s'attuffò, e tornò sù convolto; ma i demon che del ponte avean coperchio, gridar: «Qui non ha loco il Santo Volto:
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qui si nuota altrimenti che nel Serchio! Però, se tu non vuo' di nostri graffi, non far sopra la pegola soverchio».
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Poi l'addentar con più di cento raffi, disser: «Coverto convien che qui balli, sì che, se puoi, nascosamente accaffi».
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Non altrimenti i cuoci a' lor vassalli fanno attuffare in mezzo la caldaia la carne con li uncin, perché non galli.
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Lo buon maestro «Acciò che non si paia che tu ci sia», mi disse, «giù t'acquatta dopo uno scheggio, ch'alcun schermo t'aia;
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e per nulla offension che mi sia fatta, non temer tu, ch'i' ho le cose conte, perch'altra volta fui a tal baratta».
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Poscia passò di là dal co del ponte; e com'el giunse in su la ripa sesta, mestier li fu d'aver sicura fronte.
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Con quel furore e con quella tempesta ch'escono i cani a dosso al poverello che di sùbito chiede ove s'arresta,
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usciron quei di sotto al ponticello, e volser contra lui tutt'i runcigli; ma el gridò: «Nessun di voi sia fello!
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Innanzi che l'uncin vostro mi pigli, traggasi avante l'un di voi che m'oda, e poi d'arruncigliarmi si consigli».
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Tutti gridaron: «Vada Malacoda!»; per ch'un si mosse - e li altri stetter fermi -, e venne a lui dicendo: «Che li approda?».
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«Credi tu, Malacoda, qui vedermi esser venuto», disse 'l mio maestro, «sicuro già da tutti vostri schermi,
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sanza voler divino e fato destro? Lascian'andar, ché nel cielo è voluto ch'i' mostri altrui questo cammin silvestro».
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Allor li fu l'orgoglio sì caduto, ch'e' si lasciò cascar l'uncino a' piedi, e disse a li altri: «Omai non sia feruto».
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E 'l duca mio a me: «O tu che siedi tra li scheggion del ponte quatto quatto, sicuramente omai a me ti riedi».
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Per ch'io mi mossi, e a lui venni ratto; e i diavoli si fecer tutti avanti, sì ch'io temetti ch'ei tenesser patto;
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così vid'io già temer li fanti ch'uscivan patteggiati di Caprona, veggendo sé tra nemici cotanti.
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I' m'accostai con tutta la persona lungo 'l mio duca, e non torceva li occhi da la sembianza lor ch'era non buona.
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Ei chinavan li raffi e «Vuo' che 'l tocchi», diceva l'un con l'altro, «in sul groppone?». E rispondien: «Sì, fa che gliel'accocchi!».
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Ma quel demonio che tenea sermone col duca mio, si volse tutto presto, e disse: «Posa, posa, Scarmiglione!».
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Poi disse a noi: «Più oltre andar per questo iscoglio non si può, però che giace tutto spezzato al fondo l'arco sesto.
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E se l'andare avante pur vi piace, andatevene su per questa grotta; presso è un altro scoglio che via face.
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Ier, più oltre cinqu'ore che quest'otta, mille dugento con sessanta sei anni compié che qui la via fu rotta.
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Io mando verso là di questi miei a riguardar s'alcun se ne sciorina; gite con lor, che non saranno rei».
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«Tra'ti avante, Alichino, e Calcabrina», cominciò elli a dire, «e tu, Cagnazzo; e Barbariccia guidi la decina.
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Cercate 'ntorno le boglienti pane; costor sian salvi infino a l'altro scheggio che tutto intero va sovra le tane».
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«Omè, maestro, che è quel ch'i' veggio?», diss'io, «deh, sanza scorta andianci soli, se tu sa' ir; ch'i' per me non la cheggio.
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Se tu se' sì accorto come suoli, non vedi tu ch'e' digrignan li denti, e con le ciglia ne minaccian duoli?».
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Ed elli a me: «Non vo' che tu paventi; lasciali digrignar pur a lor senno, ch'e' fanno ciò per li lessi dolenti».
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Per l'argine sinistro volta dienno; ma prima avea ciascun la lingua stretta coi denti, verso lor duca, per cenno;
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ed elli avea del cul fatto trombetta. |
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Commento |
Il Canto XXI è il primo atto di una grottesca «commedia infernale» che avrà la sua conclusione nel Canto XXII e una sorta di appendice all'inizio e alla fine del XXIII, con protagonisti i due poeti, i Malebranche, i barattieri della V Bolgia. Il tema dell'episodio è senza dubbio l'inganno e il gusto della beffa, che coinvolge a vario titolo tutti i personaggi e che inserisce la vicenda in un contesto fortemente comico-realistico, per il linguaggio, i movimenti concitati, la gestualità stessa dei protagonisti. Qui la scena è quasi totalmente incentrata sui diavoli, sui custodi della V Bolgia che sono descritti come demoni neri e alati, il cui compito è sorvegliare i barattieri immersi nella pece bollente e impedire che emergano in superficie, armati di bastoni uncinati con cui fanno strazio dei peccatori. Se il loro ruolo è simile a quello di altre figure demoniache già viste (ad esempio i centauri del Flegetonte), i Malebranche non hanno tuttavia nulla della solennità di quei personaggi e sono descritti come una sgangherata combriccola di diavoli molto «popolari», paragonati agli sguatteri che per conto dei cuochi intingono la carne nella pentola coi loro uncini. Il loro compito sembra essere anche quello di andare personalmente a prendere le anime dei peccatori sulla Terra, come avveniva in certi componimenti della letteratura popolare di cui vi è eco nello stesso Dante (specie in Inf., XXVII, 112 ss., ma anche in Purg., V, 103 ss. con il contrasto tra l'angelo e il diavolo che si contendono l'anima di Bonconte da Montefeltro). Sono anche dotati di una beffarda e malvagia ironia con cui colpiscono spietatamente i peccatori, come si vede all'inizio quando accolgono il Lucchese appena arrivato nella Bolgia e gli ricordano che lì non c'è il Santo Volto (il crocifisso di legno nero venerato a Lucca, con riferimento al volto del dannato tutto sporco di pece) e che nella pece bollente si nuota diversamente che nel fiume Serchio, e che se non vorrà essere straziato dai loro uncini dovrà «ballare» sotto la pece come in vita ha arraffato di nascosto. Ironia e beffa dominano anche il seguito della farsa, con Virgilio che invita Dante a restare nascosto mentre lui, che ha le cose conte (che sa il fatto suo) andrà a parlamentare coi diavoli come già fece nella sua prima discesa infernale, evocato dalla maga Eritone. |