inferno XXIX
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Canto XXIX Inferno

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Riassunto

Il canto ventinovesimo dell'Inferno di Dante Alighieri si svolge nella nona e nella decima bolgia dell'ottavo cerchio, ove sono puniti rispettivamente i seminatori di discordia e i falsari; siamo nel pomeriggio del 9 aprile 1300 (Sabato Santo), o secondo altri commentatori del 26 marzo 1300.

Prima di lasciare la nona bolgia Dante cerca con gli occhi in essa un suo congiunto, Geri del Bello, seminatore di discordia, la cui morte violenta è rimasta invendicata, ma Virgilio gli ricorda che l’ombra di questo suo parente è passata sotto il ponte, mostrando sdegno e minacciandolo col dito, quando egli era tutto intento ad osservare Bertran de Born. Ripreso il cammino, i due pellegrini giungono sopra l’ultima bolgia dell’ottavo cerchio, nella quale si trovano i falsatori, divisi in quattro categorie: falsatori di metalli con alchimia, falsatori di persone, falsatori di monete, falsatori di parole.

 

Parafrasi

La molta gente e le diverse piaghe
avean le luci mie sì inebriate,
che de lo stare a piangere eran vaghe.
I molti dannati e le orribili piaghe avevano riempito di lacrime i miei occhi, al punto che desideravano mettersi a piangere.
 
Ma Virgilio mi disse: «Che pur guate?
perché la vista tua pur si soffolge
là giù tra l'ombre triste smozzicate?
Ma Virgilio mi disse: «Perché continui a guardare? perché il tuo sguardo si sofferma laggiù, tra le anime mutilate?
   
Tu non hai fatto sì a l'altre bolge;
pensa, se tu annoverar le credi,
che miglia ventidue la valle volge.
Tu non hai fatto così nelle altre Bolge; nel caso volessi contarle, pensa che la circonferenza della voragine qui è di ventidue miglia.
 

E già la luna è sotto i nostri piedi: lo tempo è poco omai che n'è concesso, e altro è da veder che tu non vedi».

   

«Se tu avessi», rispuos'io appresso, «atteso a la cagion perch'io guardava, forse m'avresti ancor lo star dimesso».

   

Parte sen giva, e io retro li andava, lo duca, già faccendo la risposta, e soggiugnendo: «Dentro a quella cava

   

dov'io tenea or li occhi sì a posta, credo ch'un spirto del mio sangue pianga la colpa che là giù cotanto costa».

   

Allor disse 'l maestro: «Non si franga lo tuo pensier da qui innanzi sovr'ello. Attendi ad altro, ed ei là si rimanga;

   

ch'io vidi lui a piè del ponticello mostrarti, e minacciar forte, col dito, e udi' 'l nominar Geri del Bello.

   

Tu eri allor sì del tutto impedito sovra colui che già tenne Altaforte, che non guardasti in là, sì fu partito».

   

«O duca mio, la violenta morte che non li è vendicata ancor», diss'io, «per alcun che de l'onta sia consorte,

   

fece lui disdegnoso; ond'el sen gio sanza parlarmi, sì com'io estimo: e in ciò m'ha el fatto a sé più pio».

   

Così parlammo infino al loco primo che de lo scoglio l'altra valle mostra, se più lume vi fosse, tutto ad imo.

   

Quando noi fummo sor l'ultima chiostra di Malebolge, sì che i suoi conversi potean parere a la veduta nostra,

   

lamenti saettaron me diversi, che di pietà ferrati avean li strali; ond'io li orecchi con le man copersi.

   

Qual dolor fora, se de li spedali, di Valdichiana tra 'l luglio e 'l settembre e di Maremma e di Sardigna i mali

   

fossero in una fossa tutti 'nsembre, tal era quivi, e tal puzzo n'usciva qual suol venir de le marcite membre.

   

Noi discendemmo in su l'ultima riva del lungo scoglio, pur da man sinistra; e allor fu la mia vista più viva

   

giù ver lo fondo, la 've la ministra de l'alto Sire infallibil giustizia punisce i falsador che qui registra.

   

Non credo ch'a veder maggior tristizia fosse in Egina il popol tutto infermo, quando fu l'aere sì pien di malizia,

   

che li animali, infino al picciol vermo, cascaron tutti, e poi le genti antiche, secondo che i poeti hanno per fermo,

   

si ristorar di seme di formiche; ch'era a veder per quella oscura valle languir li spirti per diverse biche.

   

Qual sovra 'l ventre, e qual sovra le spalle l'un de l'altro giacea, e qual carpone si trasmutava per lo tristo calle.

   

Passo passo andavam sanza sermone, guardando e ascoltando li ammalati, che non potean levar le lor persone.

   

Io vidi due sedere a sé poggiati, com'a scaldar si poggia tegghia a tegghia, dal capo al piè di schianze macolati;

   

e non vidi già mai menare stregghia a ragazzo aspettato dal segnorso, né a colui che mal volontier vegghia,

   

come ciascun menava spesso il morso de l'unghie sopra sé per la gran rabbia del pizzicor, che non ha più soccorso;

   

e sì traevan giù l'unghie la scabbia, come coltel di scardova le scaglie o d'altro pesce che più larghe l'abbia.

   

«O tu che con le dita ti dismaglie», cominciò 'l duca mio a l'un di loro, «e che fai d'esse talvolta tanaglie,

   

dinne s'alcun Latino è tra costoro che son quinc'entro, se l'unghia ti basti etternalmente a cotesto lavoro».

   

«Latin siam noi, che tu vedi sì guasti qui ambedue», rispuose l'un piangendo; «ma tu chi se' che di noi dimandasti?».

 

E 'l duca disse: «I' son un che discendo con questo vivo giù di balzo in balzo, e di mostrar lo 'nferno a lui intendo».

   

Allor si ruppe lo comun rincalzo; e tremando ciascuno a me si volse con altri che l'udiron di rimbalzo.

   

Lo buon maestro a me tutto s'accolse, dicendo: «Dì a lor ciò che tu vuoli»; e io incominciai, poscia ch'ei volse:

   

«Se la vostra memoria non s'imboli nel primo mondo da l'umane menti, ma s'ella viva sotto molti soli,

   

«Io fui d'Arezzo, e Albero da Siena», rispuose l'un, «mi fé mettere al foco; ma quel per ch'io mori' qui non mi mena.

   

Vero è ch'i' dissi lui, parlando a gioco: "I' mi saprei levar per l'aere a volo"; e quei, ch'avea vaghezza e senno poco,

   

volle ch'i' li mostrassi l'arte; e solo perch'io nol feci Dedalo, mi fece ardere a tal che l'avea per figliuolo.

   

Ma nell 'ultima bolgia de le diece me per l'alchìmia che nel mondo usai dannò Minòs, a cui fallar non lece».

   

E io dissi al poeta: «Or fu già mai gente sì vana come la sanese? Certo non la francesca sì d'assai!».

   

Onde l'altro lebbroso, che m'intese, rispuose al detto mio: «Tra'mene Stricca che seppe far le temperate spese,

 

e Niccolò che la costuma ricca del garofano prima discoverse ne l'orto dove tal seme s'appicca;

 

e tra'ne la brigata in che disperse Caccia d'Ascian la vigna e la gran fonda, e l'Abbagliato suo senno proferse.

 

Ma perché sappi chi sì ti seconda contra i Sanesi, aguzza ver me l'occhio, sì che la faccia mia ben ti risponda:

 

sì vedrai ch'io son l'ombra di Capocchio, che falsai li metalli con l'alchìmia; e te dee ricordar, se ben t'adocchio,

 

com'io fui di natura buona scimia».

 

Commento

Il Canto si divide in due parti, la prima delle quali (più breve) è dedicata ancora ai seminatori di discordie della IX Bolgia, fra i quali Dante include Geri del Bello. L'episodio si apre con un rimprovero di Virgilio al discepolo che si attarda a osservare la Bolgia e ha le lacrime agli occhi, diversamente da quanto ha fatto negli altri luoghi del Cerchio: il rimbrotto anticipa quello, decisamente più aspro, che il maestro rivolgerà a Dante alla fine del Canto XXX per aver assistito alla volgare rissa tra Sinone e Mastro Adamo, mentre in questo caso Dante può giustificarsi con la presenza tra i dannati del suo lontano parente Geri del Bello. Questi imputa a lui e ai membri della sua famiglia di non aver ancora vendicato la sua uccisione, cosa di cui Dante si mostra consapevole; il tema si ricollega a quello delle vendette e degli odi tra le consorterie, che era stato affrontato nel Canto precedente con la figura di Mosca dei Lamberti (il quale era dannato proprio per aver ordinato l'uccisione di un nemico del suo clan, foriera di gravi conseguenze per Firenze e la sua famiglia).


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