Riassunto |
Il canto trentunesimo dell'Inferno di Dante Alighieri si svolge tra l'ottavo e il nono cerchio, nel Pozzo dei giganti, puniti per essersi opposti a Dio; siamo nel pomeriggio del 9 aprile 1300 (Sabato Santo), o secondo altri commentatori del 26 marzo 1300.
Si tratta di un canto di raccordo tra due zone diverse dell'Inferno, come lo era stato il canto IX (presso le mura della città di Dite) tra i peccatori di incontinenza e quelli di malizia, e i canti XVI e XVII (con il volo di Gerione) tra violenti e fraudolenti.
Mentre i due pellegrini, voltate le spalle all’ultima bolgia dell’ottavo cerchio, si avviano in silenzio verso l’orlo del pozzo in cui sono puniti i fraudolenti contro chi si fida, alto, terribile, lacera l’aria il suono di un corno. Dante volge lo sguardo nella direzione dalla quale il suono è provenuto; crede di vedere molte torri, per cui domanda al maestro verso quale città si stiano dirigendo. |
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Parafrasi |
Una medesma lingua pria mi morse, sì che mi tinse l'una e l'altra guancia, e poi la medicina mi riporse; |
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La stessa voce (di Virgilio) prima mi rimproverò, facendomi arrossire entrambe le gote, poi mi porse la medicina (mi consolò); |
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così od'io che solea far la lancia d'Achille e del suo padre esser cagione prima di trista e poi di buona mancia. |
così mi sembra che fosse solita fare la lancia di Achille e suo padre Peleo, che era causa prima di triste e poi di buon assalto (curava al secondo colpo la ferita inferta col primo). |
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Noi demmo il dosso al misero vallone su per la ripa che 'l cinge dintorno, attraversando sanza alcun sermone. |
Noi voltammo le spalle alla triste fossa di Malebolge, lungo l'argine roccioso che la circonda, e procedemmo senza parlare. |
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Quiv'era men che notte e men che giorno, sì che 'l viso m'andava innanzi poco; ma io senti' sonare un alto corno, |
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tanto ch'avrebbe ogne tuon fatto fioco, che, contra sé la sua via seguitando, dirizzò li occhi miei tutti ad un loco. |
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Dopo la dolorosa rotta, quando Carlo Magno perdé la santa gesta, non sonò sì terribilmente Orlando. |
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Poco portai in là volta la testa, che me parve veder molte alte torri; ond'io: «Maestro, di', che terra è questa?». |
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Ed elli a me: «Però che tu trascorri per le tenebre troppo da la lungi, avvien che poi nel maginare abborri. |
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Tu vedrai ben, se tu là ti congiungi, quanto 'l senso s'inganna di lontano; però alquanto più te stesso pungi». |
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Poi caramente mi prese per mano, e disse: «Pria che noi siamo più avanti, acciò che 'l fatto men ti paia strano, |
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sappi che non son torri, ma giganti, e son nel pozzo intorno da la ripa da l'umbilico in giuso tutti quanti». |
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così forando l'aura grossa e scura, più e più appressando ver' la sponda, fuggiemi errore e cresciemi paura; |
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però che come su la cerchia tonda Montereggion di torri si corona, così la proda che 'l pozzo circonda |
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torreggiavan di mezza la persona li orribili giganti, cui minaccia Giove del cielo ancora quando tuona. |
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E io scorgeva già d'alcun la faccia, le spalle e 'l petto e del ventre gran parte, e per le coste giù ambo le braccia. |
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Natura certo, quando lasciò l'arte di sì fatti animali, assai fé bene per tòrre tali essecutori a Marte. |
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E s'ella d'elefanti e di balene non si pente, chi guarda sottilmente, più giusta e più discreta la ne tene; |
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ché dove l'argomento de la mente s'aggiugne al mal volere e a la possa, nessun riparo vi può far la gente. |
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La faccia sua mi parea lunga e grossa come la pina di San Pietro a Roma, e a sua proporzione eran l'altre ossa; |
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sì che la ripa, ch'era perizoma dal mezzo in giù, ne mostrava ben tanto di sovra, che di giugnere a la chioma |
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tre Frison s'averien dato mal vanto; però ch'i' ne vedea trenta gran palmi dal loco in giù dov'omo affibbia 'l manto. |
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«Raphél maì amèche zabì almi»,
cominciò a gridar la fiera bocca, cui non si convenia più dolci salmi. |
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E 'l duca mio ver lui: «Anima sciocca, tienti col corno, e con quel ti disfoga quand'ira o altra passion ti tocca! |
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Cércati al collo, e troverai la soga che 'l tien legato, o anima confusa, e vedi lui che 'l gran petto ti doga». |
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Poi disse a me: «Elli stessi s'accusa; questi è Nembrotto per lo cui mal coto pur un linguaggio nel mondo non s'usa. |
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Lasciànlo stare e non parliamo a vòto; ché così è a lui ciascun linguaggio come 'l suo ad altrui, ch'a nullo è noto». |
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Facemmo adunque più lungo viaggio, vòlti a sinistra; e al trar d'un balestro, trovammo l'altro assai più fero e maggio. |
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A cigner lui qual che fosse 'l maestro, non so io dir, ma el tenea soccinto dinanzi l'altro e dietro il braccio destro |
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d'una catena che 'l tenea avvinto dal collo in giù, sì che 'n su lo scoperto si ravvolgea infino al giro quinto. |
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«Questo superbo volle esser esperto di sua potenza contra 'l sommo Giove», disse 'l mio duca, «ond'elli ha cotal merto. |
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Fialte ha nome, e fece le gran prove quando i giganti fer paura a' dèi; le braccia ch'el menò, già mai non move». |
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E io a lui: «S'esser puote, io vorrei che de lo smisurato Briareo esperienza avesser li occhi miei». |
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Ond'ei rispuose: «Tu vedrai Anteo presso di qui che parla ed è disciolto, che ne porrà nel fondo d'ogne reo. |
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Quel che tu vuo' veder, più là è molto, ed è legato e fatto come questo, salvo che più feroce par nel volto». |
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Non fu tremoto già tanto rubesto, che scotesse una torre così forte, come Fialte a scuotersi fu presto. |
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Allor temett'io più che mai la morte, e non v'era mestier più che la dotta, s'io non avessi viste le ritorte. |
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Noi procedemmo più avante allotta, e venimmo ad Anteo, che ben cinque alle, sanza la testa, uscia fuor de la grotta. |
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«O tu che ne la fortunata valle che fece Scipion di gloria reda, quand'Anibàl co' suoi diede le spalle, |
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recasti già mille leon per preda, e che, se fossi stato a l'alta guerra de'tuoi fratelli, ancor par che si creda |
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ch'avrebber vinto i figli de la terra; mettine giù, e non ten vegna schifo, dove Cocito la freddura serra. |
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Non ci fare ire a Tizio né a Tifo: questi può dar di quel che qui si brama; però ti china, e non torcer lo grifo. |
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Ancor ti può nel mondo render fama, ch'el vive, e lunga vita ancor aspetta se 'nnanzi tempo grazia a sé nol chiama». |
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Così disse 'l maestro; e quelli in fretta le man distese, e prese 'l duca mio, ond'Ercule sentì già grande stretta. |
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Virgilio, quando prender si sentio, disse a me: «Fatti qua, sì ch'io ti prenda»; poi fece sì ch'un fascio era elli e io. |
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Qual pare a riguardar la Carisenda sotto 'l chinato, quando un nuvol vada sovr'essa sì, ched ella incontro penda; |
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tal parve Anteo a me che stava a bada di vederlo chinare, e fu tal ora ch'i' avrei voluto ir per altra strada. |
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Ma lievemente al fondo che divora Lucifero con Giuda, ci sposò; né sì chinato, lì fece dimora, |
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e come albero in nave si levò. |
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Commento |
L'episodio segna il passaggio di Dante e Virgilio tra l'VIII ed il IX Cerchio dell'Inferno, presentando le figure dei giganti che ne sono gli assoluti protagonisti e che anticipano, per molti aspetti, Lucifero che è confitto al centro di Cocito e che verrà mostrato nell'ultimo Canto. Anche i giganti, infatti, sono conficcati nella roccia fino alla cintola, ai margini del pozzo che circonda l'ultimo Cerchio dei traditori tra i quali essi in certo modo figurano in quanto dannati: tanto i giganti della tradizione biblica quanto quelli del mito classico si erano ribellati alla divinità con un folle e presuntuoso tentativo di dare la scalata al cielo, in maniera analoga a quanto aveva fatto il più bello degli angeli (Lucifero) che si era ribellato a Dio volendo essere uguale a lui. Una tradizione secolare aveva del resto creato un parallelo tra il personaggio di Nembrod, erroneamente interpretato come un gigante e quale ideatore della Torre di Babele, e i giganti della tradizione classica, che nella Titanomachia si erano ribellati a Giove venendo sconfitti dagli dei dell'Olimpo; in entrambi i casi l'episodio ricordava la ribellione di Lucifero dovuta all'invidia verso il Creatore, e lo stesso Dante in Purg., XII, 25 ss. accosta a Lucifero proprio Nembrod, Briareo e gli altri giganti classici come esempi di superbia punita all'uscita della I Cornice. I giganti ricordano Lucifero anche per la loro bestialità, in quanto nessuno di loro sembra dotato di intelletto e sono descritti da Dante alla stregua di enormi animali privi di razionalità, proprio come il principe dei diavoli che verrà rappresentato come un immane mostro peloso, con attributi ferini e intento a divorare le anime di Giuda, Bruto e Cassio. |