XXXII Inferno
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Canto XXXII Inferno

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Riassunto

Il canto trentaduesimo dell'Inferno di Dante Alighieri si svolge nella prima e nella seconda zona del nono cerchio, nella ghiaccia del Cocito, ove sono puniti rispettivamente i traditori dei parenti (Caina) e quelli della patria e del partito (Antenora); siamo nel pomeriggio del 9 aprile 1300 (Sabato Santo), o secondo altri commentatori del 26 marzo 1300.

Il canto XXXII si apre con una importante dichiarazione stilistica: Dante, per descrivere il centro dell’universo - ovvero il cerchio infernale al fondo del quale risiede Lucifero - ammette che avrebbe bisogno di un linguaggio aspro, che non solo si contrapponga alla poesia soave ed armonica - di cui lui stesso aveva dato un esempio fondamentale nell’ambito dello Stilnovo - ma anche alla lingua naturale, istintiva ed affettiva, tipica della vita pratica, quotidiana e familiare. La difficoltà di questo compito lo induce, come spesso accade, ad invocare l’aiuto delle Muse per le rime “aspre e chiocce” (v. 1) che gli servono. Qui, nel punto più basso dell’Inferno, sono infatti puniti i peccati più gravi: vi dimora dunque un’umanità talmente degenerata che sarebbe stato meglio se fosse nata in forma animale, invece che umana.

 

Parafrasi

S'io avessi le rime aspre e chiocce,
come si converrebbe al tristo buco
sovra 'l qual pontan tutte l'altre rocce,
Se io avessi uno stile poetico aspro e duro, quale sarebbe adatto a descrivere il centro della Terra sul quale pesano tutte le rocce,
 
    io premerei di mio concetto il suco
    più pienamente; ma perch'io non l'abbo,
    non sanza tema a dicer mi conduco;
io esprimerei il contenuto dei miei versi in modo più appropriato; ma poiché non ne dispongo, mi appresto a scrivere con un certo timore;
   
ché non è impresa da pigliare a gabbo
discriver fondo a tutto l'universo,
né da lingua che chiami mamma o babbo.
infatti descrivere il fondo dell'intero universo non è impresa da prendere alla leggera, né propria di una lingua infantile.
 
Ma quelle donne aiutino il mio verso
ch'aiutaro Anfione a chiuder Tebe,
sì che dal fatto il dir non sia diverso.
   
Oh sovra tutte mal creata plebe
che stai nel loco onde parlare è duro,
mei foste state qui pecore o zebe!
   
Come noi fummo giù nel pozzo scuro
sotto i piè del gigante assai più bassi,
e io mirava ancora a l'alto muro,
   
dicere udi'mi: «Guarda come passi:
va sì, che tu non calchi con le piante
le teste de' fratei miseri lassi».

   
Per ch'io mi volsi, e vidimi davante
e sotto i piedi un lago che per gelo
avea di vetro e non d'acqua sembiante.

   
Non fece al corso suo sì grosso velo
di verno la Danoia in Osterlicchi,
né Tanai là sotto 'l freddo cielo,

   
com'era quivi; che se Tambernicchi
vi fosse sù caduto, o Pietrapana,
non avria pur da l'orlo fatto cricchi.

   
E come a gracidar si sta la rana
col muso fuor de l'acqua, quando sogna
di spigolar sovente la villana;

   
Ognuna in giù tenea volta la faccia;
da bocca il freddo, e da li occhi il cor tristo
tra lor testimonianza si procaccia.

   
Quand'io m'ebbi dintorno alquanto visto,
volsimi a' piedi, e vidi due sì stretti,
che 'l pel del capo avieno insieme misto.

   
«Ditemi, voi che sì strignete i petti»,
diss'io, «chi siete?». E quei piegaro i colli;
e poi ch'ebber li visi a me eretti,

   
li occhi lor, ch'eran pria pur dentro molli,
gocciar su per le labbra, e 'l gelo strinse
le lagrime tra essi e riserrolli.

   
Con legno legno spranga mai non cinse
forte così; ond'ei come due becchi
cozzaro insieme, tanta ira li vinse.
   
E un ch'avea perduti ambo li orecchi
per la freddura, pur col viso in giùe,
disse: «Perché cotanto in noi ti specchi?
   
Se vuoi saper chi son cotesti due,
la valle onde Bisenzo si dichina
del padre loro Alberto e di lor fue.
   
non quelli a cui fu rotto il petto e l'ombra
con esso un colpo per la man d'Artù;
non Focaccia; non questi che m'ingombra
   
col capo sì, ch'i' non veggio oltre più,
e fu nomato Sassol Mascheroni;
se tosco se', ben sai omai chi fu.
   
E perché non mi metti in più sermoni,
sappi ch'i' fu' il Camiscion de' Pazzi;
e aspetto Carlin che mi scagioni».
   
Poscia vid'io mille visi cagnazzi
fatti per freddo; onde mi vien riprezzo,
e verrà sempre, de' gelati guazzi.
   
E mentre ch'andavamo inver' lo mezzo
al quale ogne gravezza si rauna,
e io tremava ne l'etterno rezzo;
   
se voler fu o destino o fortuna,
non so; ma, passeggiando tra le teste,
forte percossi 'l piè nel viso ad una.
   
Piangendo mi sgridò: «Perché mi peste?
se tu non vieni a crescer la vendetta
di Montaperti, perché mi moleste?».
   
E io: «Maestro mio, or qui m'aspetta,
si ch'io esca d'un dubbio per costui;
poi mi farai, quantunque vorrai, fretta».
   
Lo duca stette, e io dissi a colui
che bestemmiava duramente ancora:
«Qual se' tu che così rampogni altrui?».
   
«Or tu chi se' che vai per l'Antenora,
percotendo», rispuose, «altrui le gote,
sì che, se fossi vivo, troppo fora?».
   
«Vivo son io, e caro esser ti puote»,
fu mia risposta, «se dimandi fama,
ch'io metta il nome tuo tra l'altre note».
   
Ed elli a me: «Del contrario ho io brama.
Lèvati quinci e non mi dar più lagna,
ché mal sai lusingar per questa lama!».
   
Allor lo presi per la cuticagna,
e dissi: «El converrà che tu ti nomi,
o che capel qui sù non ti rimagna».
 
Ond'elli a me: «Perché tu mi dischiomi,
né ti dirò ch'io sia, né mosterrolti,
se mille fiate in sul capo mi tomi».
   
Io avea già i capelli in mano avvolti,
e tratto glien'avea più d'una ciocca,
latrando lui con li occhi in giù raccolti,
   
quando un altro gridò: «Che hai tu, Bocca?
non ti basta sonar con le mascelle,
se tu non latri? qual diavol ti tocca?».
   
«Omai», diss'io, «non vo' che più favelle,
malvagio traditor; ch'a la tua onta
io porterò di te vere novelle».
   
«Va via», rispuose, «e ciò che tu vuoi conta;
ma non tacer, se tu di qua entro eschi,
di quel ch'ebbe or così la lingua pronta.
   
El piange qui l'argento de' Franceschi:
"Io vidi", potrai dir, "quel da Duera
là dove i peccatori stanno freschi".
   
Se fossi domandato "Altri chi v'era?",
tu hai dallato quel di Beccheria
di cui segò Fiorenza la gorgiera.
   
Gianni de' Soldanier credo che sia
più là con Ganellone e Tebaldello,
ch'aprì Faenza quando si dormia».
   
Noi eravam partiti già da ello,
ch'io vidi due ghiacciati in una buca,
sì che l'un capo a l'altro era cappello;
   
e come 'l pan per fame si manduca,
così 'l sovran li denti a l'altro pose
là 've 'l cervel s'aggiugne con la nuca:
 
non altrimenti Tideo si rose
le tempie a Menalippo per disdegno,
che quei faceva il teschio e l'altre cose.
 
«O tu che mostri per sì bestial segno
odio sovra colui che tu ti mangi,
dimmi 'l perché», diss'io, «per tal convegno,
 
che se tu a ragion di lui ti piangi,
sappiendo chi voi siete e la sua pecca,
nel mondo suso ancora io te ne cangi,
 
se quella con ch'io parlo non si secca».
 

Commento

Il XXXII è il primo di tre Canti dedicati complessivamente ai traditori, ovvero a coloro che hanno peccato più gravemente e sono imprigionati nel ghiaccio di Cocito, in quattro zone concentriche che digradano verso il centro della Terra dove è confitto Lucifero. Il Canto si apre con una dichiarazione di poetica da parte di Dante, che vorrebbe disporre di un linguaggio adeguatamente aspro per descrivere il fondo dell'Universo: tale operazione non è adatta a una lingua istintiva, come quella infantile di chi chiama mamma o babbo (sono due parole che lo stesso Dante, in DVE, II, 7 raccomanda di non usare nello stile elevato per l'eccessiva semplicità). L'invocazione alle Muse è significativa in quanto segnala un innalzamento dell'impegno poetico, quasi una sorta di piccolo proemio che precede l'ingresso nella zona più aspra e terribile dell'Inferno, che si concluderà degnamente con la visione spaventosa del principe dei demoni.

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