Riassunto |
Il canto trentaquattresimo dell'Inferno di Dante Alighieri si svolge nella quarta zona del nono cerchio, nella ghiaccia del Cocito, dove sono puniti i traditori dei benefattori; siamo alla sera del 9 aprile 1300 (Sabato Santo), o secondo altri commentatori del 26 marzo 1300.
Si tratta dell'ultimo canto dell'Inferno: Dante e Virgilio vi vedono Lucifero, principio di ogni male, e scendono al centro della terra lungo il suo corpo, fino a risalire poi sull'altro emisfero dove si trova il Purgatorio, oggetto della cantica successiva.
Ci troviamo tra i traditori dei benefattori nella quarta zona di Cocito, detta Giudecca. Dante e Virgilio sono immersi in una fitta nebbia e nell'oscurità, quando in lontananza scorgono un grande mulino a vento: questa è l'immagine, o meglio, l'impressione che Dante percepisce del terribile aspetto di Lucifero. |
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Parafrasi |
«Vexilla regis prodeunt inferni verso di noi; però dinanzi mira», disse 'l maestro mio «se tu 'l discerni». |
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Il mio maestro disse: «I vessilli del re dell'Inferno (Lucifero) si avvicinano a noi; quindi guarda davanti a te, se riesci a vederlo». |
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Come quando una grossa nebbia spira, o quando l'emisperio nostro annotta, par di lungi un molin che 'l vento gira, |
Come quando c'è una nebbia fitta o quando nel nostro emisfero cala la notte, e appare in lontananza un mulino che è mosso dal vento, |
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veder mi parve un tal dificio allotta; poi per lo vento mi ristrinsi retro al duca mio; ché non lì era altra grotta. |
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Già era, e con paura il metto in metro, là dove l'ombre tutte eran coperte, e trasparien come festuca in vetro. |
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Altre sono a giacere; altre stanno erte, quella col capo e quella con le piante; altra, com'arco, il volto a' piè rinverte. |
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Quando noi fummo fatti tanto avante, ch'al mio maestro piacque di mostrarmi la creatura ch'ebbe il bel sembiante, |
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d'innanzi mi si tolse e fé restarmi, «Ecco Dite», dicendo, «ed ecco il loco ove convien che di fortezza t'armi». |
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Com'io divenni allor gelato e fioco, nol dimandar, lettor, ch'i' non lo scrivo, però ch'ogne parlar sarebbe poco. |
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Io non mori' e non rimasi vivo:
pensa oggimai per te, s'hai fior d'ingegno, qual io divenni, d'uno e d'altro privo. |
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Lo 'mperador del doloroso regno da mezzo 'l petto uscìa fuor de la ghiaccia; e più con un gigante io mi convegno, |
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che i giganti non fan con le sue braccia: vedi oggimai quant'esser dee quel tutto ch'a così fatta parte si confaccia. |
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S'el fu sì bel com'elli è ora brutto, e contra 'l suo fattore alzò le ciglia, ben dee da lui proceder ogne lutto. |
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Oh quanto parve a me gran maraviglia quand'io vidi tre facce a la sua testa! L'una dinanzi, e quella era vermiglia; |
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l'altr'eran due, che s'aggiugnieno a questa sovresso 'l mezzo di ciascuna spalla, e sé giugnieno al loco de la cresta: |
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e la destra parea tra bianca e gialla; la sinistra a vedere era tal, quali vegnon di là onde 'l Nilo s'avvalla. |
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Sotto ciascuna uscivan due grand'ali, quanto si convenia a tanto uccello: vele di mar non vid'io mai cotali. |
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Non avean penne, ma di vispistrello era lor modo; e quelle svolazzava, sì che tre venti si movean da ello: |
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quindi Cocito tutto s'aggelava. Con sei occhi piangea, e per tre menti gocciava 'l pianto e sanguinosa bava. |
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Da ogne bocca dirompea co' denti
un peccatore, a guisa di maciulla, sì che tre ne facea così dolenti. |
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A quel dinanzi il mordere era nulla verso 'l graffiar, che talvolta la schiena rimanea de la pelle tutta brulla. |
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«Quell'anima là sù c'ha maggior pena», disse 'l maestro, «è Giuda Scariotto, che 'l capo ha dentro e fuor le gambe mena. |
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De li altri due c'hanno il capo di sotto, quel che pende dal nero ceffo è Bruto: vedi come si storce, e non fa motto!; |
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e l'altro è Cassio che par sì membruto. Ma la notte risurge, e oramai
è da partir, ché tutto avem veduto». |
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Com'a lui piacque, il collo li avvinghiai; ed el prese di tempo e loco poste, e quando l'ali fuoro aperte assai, |
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appigliò sé a le vellute coste; di vello in vello giù discese poscia tra 'l folto pelo e le gelate croste. |
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Quando noi fummo là dove la coscia si volge, a punto in sul grosso de l'anche, lo duca, con fatica e con angoscia, |
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«Attienti ben, ché per cotali scale», disse 'l maestro, ansando com'uom lasso, «conviensi dipartir da tanto male». |
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Poi uscì fuor per lo fóro d'un sasso, e puose me in su l'orlo a sedere; appresso porse a me l'accorto passo. |
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Io levai li occhi e credetti vedere Lucifero com'io l'avea lasciato, e vidili le gambe in sù tenere; |
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e s'io divenni allora travagliato, la gente grossa il pensi, che non vede qual è quel punto ch'io avea passato. |
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«Lèvati sù», disse 'l maestro, «in piede: la via è lunga e 'l cammino è malvagio, e già il sole a mezza terza riede». |
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Non era camminata di palagio là 'v'eravam, ma natural burella ch'avea mal suolo e di lume disagio. |
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«Prima ch'io de l'abisso mi divella, maestro mio», diss'io quando fui dritto, «a trarmi d'erro un poco mi favella: |
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ov'è la ghiaccia? e questi com'è fitto sì sottosopra? e come, in sì poc'ora, da sera a mane ha fatto il sol tragitto?». |
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Ed elli a me: «Tu imagini ancora d'esser di là dal centro, ov'io mi presi al pel del vermo reo che 'l mondo fóra. |
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Di là fosti cotanto quant'io scesi; quand'io mi volsi, tu passasti 'l punto al qual si traggon d'ogne parte i pesi. |
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E se' or sotto l'emisperio giunto ch'è contraposto a quel che la gran secca coverchia, e sotto 'l cui colmo consunto |
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fu l'uom che nacque e visse sanza pecca: tu hai i piedi in su picciola spera che l'altra faccia fa de la Giudecca. |
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Qui è da man, quando di là è sera; e questi, che ne fé scala col pelo, fitto è ancora sì come prim'era. |
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Da questa parte cadde giù dal cielo; e la terra, che pria di qua si sporse, per paura di lui fé del mar velo, |
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e venne a l'emisperio nostro; e forse per fuggir lui lasciò qui loco vòto quella ch'appar di qua, e sù ricorse».
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Luogo è là giù da Belzebù remoto tanto quanto la tomba si distende, che non per vista, ma per suono è noto |
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d'un ruscelletto che quivi discende per la buca d'un sasso, ch'elli ha roso, col corso ch'elli avvolge, e poco pende. |
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Lo duca e io per quel cammino ascoso intrammo a ritornar nel chiaro mondo; e sanza cura aver d'alcun riposo, |
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salimmo sù, el primo e io secondo, tanto ch'i' vidi de le cose belle che porta 'l ciel, per un pertugio tondo. |
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E quindi uscimmo a riveder le stelle. |
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Commento |
Protagonista assoluto del Canto che chiude la I Cantica è Lucifero, Lo 'mperador del doloroso regno la cui apparizione è preannunciata da Virgilio già all'inizio dell'episodio parafrasando l'inno di Venanzio Fortunato alla croce: nell'inno latino si diceva solo Vexilla regis prodeunt, cioè «si avvicinano i vessili del re», mentre Dante aggiunge Inferni per significare che è prossimo l'incontro col principe dei demoni. La citazione di Venanzio non è irriverente come è parso ad alcuni né parodica, anche se Lucifero viene di fatto accostato alla croce dove fu giustiziato Cristo (ed è innegabile che il mostro sia un bizzarro rovesciamento della Trinità, incluso il particolare del vento che promana dalle sue ali). |