si e no nel capo mi tenciona significato
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Canto VIII Inferno

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Riassunto

Il canto ottavo dell'Inferno di Dante Alighieri si svolge nel quinto cerchio, ove sono puniti gli iracondi e gli accidiosi; siamo nella notte tra l'8 e il 9 aprile 1300 (Sabato Santo), o secondo altri commentatori tra il 25 e il 26 marzo 1300.

Già prima di arrivare ai piedi della torre, i due poeti (Dante e Virgilio) vedono accendersi sulla sua sommità due segnali luminosi, ai quali, da molto lontano, appena percettibile, risponde un terzo. Ed ecco avvicinarsi sulla sua antica barca, veloce al par di saetta, il custode della palude stigia, l’iroso Flegiàs, il quale, rivolto a Dante, grida: "Ti ho finalmente in mio potere, anima malvagia!" Virgilio delude questa speranza del nocchiero infernale: egli e il suo discepolo non sono venuti per rimanere nel cerchio degli iracondi, ma solo per attraversarlo. Mentre, sulla navicella di Flegiàs, i due solcano le acque melmose, ecco farsi avanti uno dei dannati della palude, il fiorentino Filippo Argenti, che apostrofa sarcasticamente il suo concittadino. Dante replica con espressioni di duro scherno, suscitando l’ammirazione di Virgilio che si compiace della nobile ira del discepolo. Ma questi non è ancora contento: vuole vedere il suo borioso antagonista immerso nel fango. Attraversato lo Stige, i due pellegrini sbarcano ai piedi delle mura di ferro rovente che cingono la città di Dite. Qui, più di mille seguaci di Lucifero si oppongono minacciosi all’ingresso di colui che, ancora in vita, impunemente è entrato nel regno dei morti. Il poeta latino esorta Dante a non perdersi d’animo e si reca a parlamentare con i diavoli. Ma poco dopo ritorna con i segni della sfiducia sul volto: la sua missione non è riuscita. Solo qualcuno più forte di lui potrà aprire la porta che immette nei cerchi formanti il basso inferno.

Parafrasi

Io dico, seguitando, ch'assai prima
che noi fossimo al piè de l'alta torre,
li occhi nostri n'andar suso a la cima
Proseguendo il mio racconto, dico che, molto prima di giungere ai piedi dell’alta torre, i nostri sguardi si diressero verso la sua sommità
 
per due fiammette che i vedemmo porre
e un'altra da lungi render cenno
tanto ch'a pena il potea l'occhio tòrre.
Parafrasi: attratti da due fiammelle che vedemmo apparire lassù, e da un’altra che rispondeva ai segnali da tanto lontano, che a stento il nostro sguardo poteva distinguerla.
 
           E io mi volsi al mar di tutto 'l senno;
           dissi: «Questo che dice? e che risponde
           quell'altro foco? e chi son quei che 'l fenno?».

Parafrasi: Allora mi rivolsi a Virgilio, dicendo: "Che significato ha questo segnale? e quale risposta dà quell’altra luce? e chi sono quelli che l’hanno accesa?"

   
           Ed elli a me: «Su per le sucide onde
           già scorgere puoi quello che s'aspetta,
           se 'l fummo del pantan nol ti nasconde».

Parafrasi: E Virgilio di rimando: "Sull’acqua melmosa puoi già scorgere colui che è atteso (da chi ha fatto i segnali), se i vapori che lo stagno esala non lo celano ai tuoi occhi".

   

Corda non pinse mai da sé saetta
che sì corresse via per l'aere snella,
com'io vidi una nave piccioletta

Parafrasi: Nessuna corda d’arco scoccò mai una freccia che volasse nell’aria con una velocità paragonabile a quella della piccola imbarcazione

   

venir per l'acqua verso noi in quella,
sotto 'l governo d'un sol galeoto,
che gridava: «Or se' giunta, anima fella!».

Parafrasi: che vidi in quell’istante dirigersi sull’acqua verso di noi, pilotata da un solo nocchiero, che urlava: "Ti ho finalmente raggiunto, spirito malvagio!".

   

«Flegiàs, Flegiàs, tu gridi a vòto»,
disse lo mio segnore «a questa volta:
più non ci avrai che sol passando il loto».

Parafrasi: "Flegiàs, Flegiàs, tu gridi inutilmente contro di noi " ribatte il mio maestro, "a non ci avrai in tuo potere che il tempo necessario per attraversare la palude fangosa."

   

Qual è colui che grande inganno ascolta
che li sia fatto, e poi se ne rammarca,
fecesi Flegiàs ne l'ira accolta.

Parafrasi: Come colui che apprende di essere stato gravemente ingannato, e allora prova rammarico, così divenne Flegiàs per l’ira che in lui si raccolse.

   

Lo duca mio discese ne la barca,
e poi mi fece intrare appresso lui;
e sol quand'io fui dentro parve carca.

Parafrasi: Virgilio scese nella barca, e poi mi fece scendere dopo di lui; soltanto quando anch’io fui entrato, essa sembrò carica (gli abitanti dell’oltretomba, essendo esseri privi del corpo, non hanno peso).

   

Tosto che 'l duca e io nel legno fui,
segando se ne va l'antica prora
de l'acqua più che non suol con altrui.

Non appena Virgilio e io fummo a bordo, l’antica (perché coeva dell’inferno) barca cominciò a fendere l’acqua, immergendosi in essa più profondamente di quanto non faccia di solito, quando trasporta le anime.
Mentre noi corravam la morta gora,
dinanzi mi si fece un pien di fango,
e disse: «Chi se' tu che vieni anzi ora?».
Mentre solcavamo l’immobile palude, mi si parò davanti uno spirito coperto di fango, e disse: "Chi sei tu che arrivi anzitempo (prima del termine stabilito, cioè prima della morte)?

E io a lui: «S'i' vegno, non rimango;
ma tu chi se', che sì se' fatto brutto?».
Rispuose: «Vedi che son un che piango».

" Ed io: " Se arrivo, non è certo per rimanere; ma chi sei tu, reso cosi sporco dal fango?" Rispose: "Vedi bene che sono uno di quelli che piangono (cioè un dannato) ".

E io a lui: «Con piangere e con lutto,
spirito maladetto, ti rimani;
ch'i' ti conosco, ancor sie lordo tutto».

Ed io: " Restatene, anima maledetta, col pianto e col dolore; perché ti riconosco, anche se sei tutto imbrattato di fango ".
   
Allor distese al legno ambo le mani;
per che 'l maestro accorto lo sospinse,
dicendo: «Via costà con li altri cani!».
Allora allungò verso la barca entrambe le mani (per rovesciarla o per colpire Dante ); ma Virgilio pronto lo respinse, dicendogli: " Via di qui, vattene a stare con gli altri maledetti ! "
   

Lo collo poi con le braccia mi cinse;
basciommi 'l volto, e disse: «Alma sdegnosa,
benedetta colei che 'n te s'incinse!

Poi mi abbracciò: mi baciò in viso, e disse: "Anima fiera, sia benedetta colei che ti ha portato nel grembo!
   

Quei fu al mondo persona orgogliosa;
bontà non è che sua memoria fregi:
così s'è l'ombra sua qui furiosa.

   

Quanti si tegnon or là sù gran regi
che qui staranno come porci in brago,
di sé lasciando orribili dispregi!».

   

E io: «Maestro, molto sarei vago
di vederlo attuffare in questa broda
prima che noi uscissimo del lago».

   

Ed elli a me: «Avante che la proda
ti si lasci veder, tu sarai sazio:
di tal disio convien che tu goda».

   

Dopo ciò poco vid'io quello strazio
far di costui a le fangose genti,
che Dio ancor ne lodo e ne ringrazio.

   

Tutti gridavano: «A Filippo Argenti!»;
e 'l fiorentino spirito bizzarro
in sé medesmo si volvea co' denti.

   

Quivi il lasciammo, che più non ne narro;
ma ne l'orecchie mi percosse un duolo,
per ch'io avante l'occhio intento sbarro.

   

Lo buon maestro disse: «Omai, figliuolo,
s'appressa la città c'ha nome Dite,
coi gravi cittadin, col grande stuolo».

   

E io: «Maestro, già le sue meschite
là entro certe ne la valle cerno,
vermiglie come se di foco uscite

   

fossero». Ed ei mi disse: «Il foco etterno
ch'entro l'affoca le dimostra rosse,
come tu vedi in questo basso inferno».

   

Noi pur giugnemmo dentro a l'alte fosse
che vallan quella terra sconsolata:
le mura mi parean che ferro fosse.

   

Non sanza prima far grande aggirata,
venimmo in parte dove il nocchier forte
«Usciteci», gridò: «qui è l'intrata».

   

Io vidi più di mille in su le porte
da ciel piovuti, che stizzosamente
dicean: «Chi è costui che sanza morte

   

va per lo regno de la morta gente?».
E 'l savio mio maestro fece segno
di voler lor parlar segretamente.

   

Allor chiusero un poco il gran disdegno,
e disser: «Vien tu solo, e quei sen vada,
che sì ardito intrò per questo regno.

   

Sol si ritorni per la folle strada:
pruovi, se sa; ché tu qui rimarrai
che li ha' iscorta sì buia contrada».

 

Pensa, lettor, se io mi sconfortai
nel suon de le parole maladette,
ché non credetti ritornarci mai.

   

«O caro duca mio, che più di sette
volte m'hai sicurtà renduta e tratto
d'alto periglio che 'ncontra mi stette,

   

non mi lasciar», diss'io, «così disfatto;
e se 'l passar più oltre ci è negato,
ritroviam l'orme nostre insieme ratto».

   

E quel segnor che lì m'avea menato,
mi disse: «Non temer; ché 'l nostro passo
non ci può tòrre alcun: da tal n'è dato.

   

Ma qui m'attendi, e lo spirito lasso
conforta e ciba di speranza buona,
ch'i' non ti lascerò nel mondo basso».

   

Così sen va, e quivi m'abbandona
lo dolce padre, e io rimagno in forse,
che sì e no nel capo mi tenciona.

   

Udir non potti quello ch'a lor porse;
ma ei non stette là con essi guari,
che ciascun dentro a pruova si ricorse.

   

Chiuser le porte que' nostri avversari
nel petto al mio segnor, che fuor rimase,
e rivolsesi a me con passi rari.

   

Li occhi a la terra e le ciglia avea rase
d'ogne baldanza, e dicea ne' sospiri:
«Chi m'ha negate le dolenti case!».

   

E a me disse: «Tu, perch'io m'adiri,
non sbigottir, ch'io vincerò la prova,
qual ch'a la difension dentro s'aggiri.

   

Questa lor tracotanza non è nova;
ché già l'usaro a men segreta porta,
la qual sanza serrame ancor si trova.

   

Sovr'essa vedestù la scritta morta:
e già di qua da lei discende l'erta,
passando per li cerchi sanza scorta,

   

tal che per lui ne fia la terra aperta».

 

Commento

Il Canto è suddiviso in tre momenti che corrispondono all'apparizione del demone Flegiàs, all'incontro con Filippo Argenti e all'arrivo alla città di Dite, aventi come filo conduttore l'ira e l'immagine del fuoco che al peccato degli iracondi rimanda. L'inizio si ricollega a quanto detto alla fine del Canto precedente, in cui dopo la prima descrizione della pena degli iracondi era stata mostrata la torre che qui, in maniera misteriosa, scambia strani segnali luminosi con un'altra posta più addentro nella palude e il cui significato non è reso esplicito dal poeta. Forse è un richiamo per Flegiàs, il traghettatore demoniaco che non tarda ad arrivare sulla sua barca e reagisce con rabbia alla notizia che non potrà trattenere Dante nello Stige, mentre non è molto chiaro se la sua funzione sia quella di traghettare solo le anime degli iracondi o di tutti i dannati destinati al Basso Inferno: anche in questo caso la demonizzazione del personaggio classico è alquanto deformante rispetto all'originale, anche se è chiaro che il suo nome è da collegare etimologicamente alla fiamma (come il Flegetonte, il fiume caldo di sangue) e va ricordato che Flegiàs nel mito classico aveva incendiato il tempio di Apollo a Delfi, adirato perché il dio aveva sedotto sua figlia. In ogni caso anch'egli, nonostante la stizza con cui accoglie la presenza all'Inferno del vivo Dante, è costretto dal volere divino a farlo salire sulla sua barca e a condurlo attraverso la palude, dove avverrà il tempestoso incontro con Filippo Argenti.

Costui era un fiorentino di parte Nera avverso a Dante e probabilmente suo nemico personale, appartenente alla consorteria degli Adimari e citato da Boccaccio nella stessa novella (IX, 8) in cui compare Ciacco: anch'egli reagisce con stizza alla presenza di Dante, di cui si stupisce che possa viaggiare da vivo nell'Aldilà, e rifiuta di rivelare il proprio nome per orgoglio, salvo poi avventarsi furioso contro il poeta nel momento in cui lui lo riconosce e lo fa oggetto di parole ingiuriose di condanna. Il breve e serrato scambio di battute fra Dante e l'Argenti è simile a un «contrasto» o a una «tenzone» della poesia comico-realistica, il cui tono domina largamente l'intero episodio, e ci riconduce al clima di lotte intestine e rivalità tra consorterie di cui era preda Firenze all'inizio del Trecento e delle quali si è parlato anche nel Canto VI. Le parole di Virgilio che benedice la madre di Dante, dopo avere scacciato con decisione lo spirito, vogliono essere una sorta di approvazione dell'odio e dello sdegno del poeta, che erano rivolti verso tutta la casata degli Adimari (secondo alcune testimonianze, essa si sarebbe opposta al suo rientro in Firenze dopo l'esilio e ne avrebbe usurpato i beni); il poeta latino sottolinea che molti in vita si ritengono altezzosamente dei gran regi, mentre il loro destino ultraterreno è di essere attuffati nel fango dello Stige come porci in brago, quindi Dante mostra qui la verità della condizione nell'Oltretomba che ristabilisce la verità e assegna a ciascuno il posto che merita, per cui il poeta è destinato alla salvezza e l'Adimari a subire l'orribile pena degli iracondi (anche in altri casi la descrizione delle anime rivelerà un destino assai diverso da quello che si pensava comunemente fra vivi sulla Terra).

 DANTE ALIGHIERI
 LA DIVINA COMMEDIA
 INFERNO
 PURGATORIO
 PARADISO

 

 

 

 

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